Mani di Vellluto in Catalogna

Garoina, Chardonnay, Celler Oliveda.

Ci vuole una certa perizia nel maneggiare i ricci di mare, e in questo caso, sembra, anche senza alcuna protezione. Ma partiamo del nome del vino, “Garoina” che in Catalano indica appunto il noto e ricercato mollusco dai pericolosi aculei (soprattutto se al posto della mani ci mettete un piede). Le vigne aziendali si trovano sotto ai Monti Albères, in località Capmany, proprio sul confine con la Francia. Il terreno è composto in prevalenza da “sauló” una sabbia granitica caratteristica della zona (lo Chardonnay è un “jolly”: cresce proprio dappertutto!). L’etichetta colpisce immediatamente per i toni scarlatti del mollusco, e poi impressiona la mano di donna che, con grazia, lo regge. Null’altro che il nome su fondo bianco in basso a destra. Un packaging d’impatto che contiene un consiglio d’uso e al tempo stesso fa gioco a se stesso generando empatia e attenzione. Prezzi contenuti come ancora oggi la Spagna (pardòn, la Catalogna) ci insegna. Un progetto che risplende nei toni cromatici, nella semplicità della grafica, e restituisce in comunicazione tutto il sole di quella costa arida nel terreno ma ricca di vita in ogni luogo.

Una Dama Rossa che fa Sognare

Macvin du Jura, vino liquoroso, Les Dolomies.

Il nome di questo vino che è anche il nome della categoria di prodotto (la qual cosa non va molto bene in comunicazione) ha una storia particolare, legata alla sua produzione. Si tratta infatti di un vino liquoroso costituito per 2/3 da mosto d’uva e per 1/3 da distillato (il Marc du Jura, corrispondente alla nostra grappa). Il nome, dicono ufficialmente le corporazioni del luogo, deriva dall’unione delle parole Marc e Vin (però i conti non tornano, manca una “r”, ma soprassediamo). Quello che ha attirato la nostra attenzione è la splendida illustrazione ad acquarello che troviamo sulla sinistra dell’etichetta: impossibile non notarla, grazie anche all’intensa colorazione. Raffigura una donna nell’atto di prendere oppure offrire o anche solo ammirare una bottiglia di vino che tiene nella sua mano sinistra. Il volto è completamente assente, ovvero non è per nulla particolareggiato, ma l’immagine fa sognare, fa “immaginare”. Il vestito è bellissimo, la donna è sicuramente bellissima, la scena e le circostanze sono sicuramente bellissime. Lo dice la nostra fantasia. Ed è la dimostrazione di quanta efficacia ci può essere in un idea (e in un bel tratto artistico). Un ultimo accenno all’azienda, biodinamica, nel cuore di quella regione vinicola ancora tutta da scoprire, lo Jura. Il produttore, una coppia di illuminati vignaioli, si chiama Les Dolomies, termine che in quella zona sta a indicare la tipologia di terreno, costituito in gran parte da calcare ricco di magnesio. Bravi.

La Foglia di Fico e Tante Altre Storie

Riserva del Fico, Barolo, E. Molino.

Avete 100 euro da spendere? Ecco un Barolo che potrebbe corrispondere al vostro budget. A parte il costo, si tratta di un Barolo che non vuole nascondersi dietro una foglia di fico (anzi, la utilizza in etichetta e nel nome). Il packaging ha uno stile che si fa notare. Davvero molto “vintage”, di quelli che sia pure in questa zona “arcaica” non ne fanno più. Attenzione però, in basso a destra sbuca un simbolo che è di per sé un segno di (coercitiva) modernità: il famigerato QR Code che ormai dilaga in ogni ordine di prodotto e di comunicazione. Siamo di fronte a un caso di antico-moderno? O ancora meglio di moderno-antico? Certo che quella foglia di fico in primo piano, per di più verde, non si direbbe adatta a una tipologia di vino come questo, ormai sdoganato come simbolo di virtuosa eleganza in tutto il mondo. A meno chè, teoria che va per la maggiore, l’etichetta risalga davvero a un secolo fa o forse più. Nel suo complesso siamo in quel sempre più ristretto campo degli inflessibili tradizionalisti. E perché cambiare uno status quo che funziona da decenni? La “Riserva del Fico” continua il suo ormai nobile percorso verso la glorificazione. E gli appassionati degustano e ringraziano (quasi tutti).

Un Barolo che si Inchina alle Erbe Officinali

Barolo Chinato, Ceretto.

Molto particolare questa etichetta di Ceretto, dedicata alla propria interpretazione del Barolo Chinato, un prodotto d’eccellenza, tipico delle Langhe. La preziosità delle soluzioni in bronzo/oro si sposa con la praticità delle descrizioni delle erbe, lungo tutto il perimetro dell’illustrazione. Ceretto non si accontenta di aggiungere la China al proprio Barolo: le erbe (di Langa, viene specificato da una dicitura a monte dell’illustrazione) sono almeno 13, tutte indicate, vicino alla relativa stilizzazione, col loro nome scientifico. Le scritte sono molto piccole, forse meritavano qualche decimo di millimetro in più. Tra queste riusciamo a scorgere, ad esempio, la Valeriana Officinalis, l’Iris Fiorentina, la Menta Piperita. Insomma un insieme di estratti benefici che uniti alla bontà del vino, rendono importante questo prodotto. L’etichetta risulta preziosa, fornisce sensazioni di artigianalià, suggerisce un uso centellinato del nobile intruglio e certamente il nome del produttore, molto stimato, funge da garanzia di qualità.

Lieti e Ottimi Calici alla Cascina del Buonumore

Cascina del Buonumore, Nebbiolo, Barbaglia.

Il buonumore: che grande risorsa personale e, potenzialmente, filosofica e socialmente utile! Il nome che contraddistingue questo vino a base Nebbiolo (da monovigneto) dell’Alto Piemonte, rispecchia il carattere e l’indole anche professionale di chi l’ha pensato e creato. Stiamo parlando di Silvia Barbaglia, vignaiola per davvero, di quelle che ci mettono la faccia e le mani, anima e corpo, in vigna anche in pieno inverno, non per farsi fotografare in pose studiate, bensì per accudirla al meglio. Ed ecco quindi la Cascina del Buonumore, sede dell’azienda e ameno luogo (nei pressi del Santuario del Santissimo Crocifisso di Boca) circondato da vigne a perdita d’occhio e stanziato su una terra che testimonia e racconta di un antico vulcano. Al centro dell’etichetta troviamo una illustrazione che riproduce al tratto la cascina stessa. In alto il logo scudato e il nome aziendale. Pochi e chiari elementi che nel packaging presentano come protagonisti concettuali la convivialità e il benessere che la cura e la passione, quindi la qualità di questo vino, sapranno certamente evocare, con lieti calici, anche a tavola. 

L’Etna, Polifemo e i Faraglioni (quelli Siciliani)

Fermento Siciliano, Nerello Mascalese e Cappuccio, Cantine Madaudo.

Questo vino fa parte della serie “Sicilia Illustrata” e infatti tutto lo spazio disponibile sull’etichetta viene occupato da una illustrazione, molto bella, che raffigura il Ciclope Polifemo mentre scaglia un masso in direzione della nave di Ulisse. Questo narra il mito che tutti conoscono e che nasce proprio alle pendici dell’Etna, dove allignano i vigneti di questa azienda, precisamente a Randazzo. L’immagine è forte, grazie anche al colore rosso dominante e alla dinamica da fumetto alla Diabolik. Alle spalle del Ciclope vediamo anche il vulcano che erutta lava (questo, almeno, a noi sembra). C’è tutta la forza e l’energia di un territorio che racconta sé stesso con la storia e anche l’attualità di un Etna che ogni tanto, effettivamente, fa ancora sentire la sua voce. La vicenda di Polifemo è nota ai più. Valga come conferma la vista dei Faraglioni dei Ciclopi ad Acitrezza. Da parte dell’azienda, aver “cavalcato” il mito di Polifemo fornisce un riferimento geografico molto preciso, consente di utilizzare anche la fama del vulcano come volano di comunicazione e fa sognare gli “spettatori” con un frame di grande effetto che difficilmente si farà dimenticare. Bravi.

Semplicità, Forza e Orgoglio Friulano

Friulano (Collio), Kurtin.

Stiamo parlando di un vino e di un’azienda italiani, sia pure al confine con la Slovenia. Colpisce quindi, innanzitutto, quella scritta in alto, “Kurtin”. In effetti si tratta del cognome della famiglia che dal 1906 gestisce un’attività agricola prima, e successivamente solo vitivinicola. Difficile trovare la lettera “K” in un cognome italiano, ma in questa zona, nel Collio, le storie e le culture si mescolano. L’azienda ne ha fatto un simbolo: infatti la K diventa logo scudato (non visibile qui in etichetta). Colpisce anche quella luna dorata che sovrasta un gradevole disegno al tratto dove un ragazzo e un uomo adulto (padre o nonno) ammirano il panorama rurale. Molto bella la frase di accompagnamento che troviamo alla base del disegno: “Il vino dei padri, succo della nostra memoria, storia che ci disseta”.  Un poetico riferimento alle generazioni che si sono susseguite nel corso del secolo scorso, alla guida dell’azienda. Un omaggio a chi è venuto prima e che ora viene ricordato come colui che ha spianato la strada alle rinnovate passioni. E’ un’etichetta semplice, chiara, senza pretese di voler rappresentare qualcosa di prezioso o aristocratico. Il vino è terra, è contadino, è lavoro e tradizione. Sia per chi lo produce, sia per chi lo beve. Con tanta buona ragione e salute per tutti.

Nostalgia Grafica, Tradizioni Storiche

Nebbiolo d’Alba, (Vigna Valmaggiore), Marengo.

Il Piemonte è quella regione d’Italia dove, oltre a garantire ottimi vini, le tradizioni, anche sotto forma di usi e costumi, sono rimaste inalterate nel tempo. Questa modalità si ritrova molto spesso nelle etichette dei vini, con stili che appartengono al passato e che richiamano, non senza nostalgia, simboli arcaici. Questo avviene soprattutto nelle zone storiche, del Barolo, del Barbaresco, al di là e al di qua del Tanaro, nelle Langhe e nel Roero. Proprio dove opera il produttore del quale riportiamo l’etichetta qui a fianco. Si tratta di un Nebbiolo d’Alba, cugino di vini più celebrati ma ugualmente di finissima trama. Vediamo quindi il packaging nel dettaglio. In alto, il cognome della famiglia che da 4 generazioni produce vino: Marengo. In rete si trova in realtà la dicitura “Mario Marengo”, in riferimento al padre dell’attuale vignaiolo, Marco. Sotto al cognome di famiglia c’è un disegno, piuttosto abbozzato, con un vecchio cascinale (che somiglia molto a una tipica fattoria americana, a dire il vero). Poi abbiamo il nome della Doc e quindi il nome della vigna di provenienza delle uve: “Vigna Valmaggiore” che può diventare il nome del vino, visto e che ufficialmente non ne possiede uno. Il fondo è un aranciato tenue, l’elaborato, come già detto, tradisce una certa malinconia grafica, una linearità tutta sua, senza sfarzo, proprio no, puntando sul “come si è sempre fatto”. Funziona? Ancora sì. Il territorio traina le vendite. Ma il packaging antagonista sta su un altro pianeta.

Il Mare d’Inverno, “un Concetto che il Pensiero non Considera”

Mare d’Inverno, Barbera Frizzante, Lusenti.

Confessiamo che in prima battuta abbiamo cercato questo vino (conoscendone solo l’etichetta e il nome e non il contenuto effettivo) tra i bianchi della gamma dell’Azienda Lusenti, poi nei bianchi frizzanti, quindi abbiamo provato tra quelli dolci. Convintissimi che si trattasse di un vino bianco. Invece… si tratta di un vino rosso, di una Barbera frizzante per l’esattezza. Forse è una questione di cognizione personale, ma il nome del vino, “Mare d’Inverno” a noi ispirava un vino bianco. E’ vero che il vino bianco si beve d’estate, ma ugualmente l’immagine e la cromografia (toni azzurri, onde e gabbiano) portavano a una fruizione “leggera”, da pesce, sia pure in inverno. Sorpresa: si tratta di un rosso, sia pure di spiccata acidità e frizzantezza, che forse potrebbe adattarsi (e non viceversa) a piatti di pesce, magari grasso, pesce azzurro, tanto per non tradire l’elaborato del packaging. Il nome di questo vino riporta anche, inevitabilmente, a una nota canzone eseguita per lo più da Loredana Bertè, addirittura inneggiante a un certo mondo in bianco e nero, nemmeno in azzurro: “Il mare d'inverno è solo un film in bianco e nero visto alla TV…”. Complessivamente l’etichetta si fa ben vedere e ben volere. Qualche dubbio sul concetto generale che la comunicazione, nel suo insieme, riesce ad esprimere.

Il Senso del Coniglio (o della Papera)

Cà Povolta, Soave, GI s.p.a. Trento.

Sarà un gioco di parole, per altro non troppo ben riuscito, a far vendere di più un vino? Può essere. Non abbiamo accesso ai dati di mercato di questo imbottigliatore. E non ci interessano nemmeno. L’etichetta invece sì, vale qualche attenzione, se non altro per la sua indole “acchiappa clienti” da mercati generali. Dunque ecco l’elaborato: il visual è quella nota immagine utilizzata dagli psicologi per vedere chi ci trova un coniglio e chi altri una papera. Già visto e stravisto e molto probabilmente utilizzabile senza necessità di pagare diritti di copyright. Il nome del vino (o se volete dell’azienda) è “Cà Povolta”. Facciamo fatica a cederci, ma è scritto proprio così. Allude, certo, alla possibilità di capovolgere l’immagine sottostante per poter vedere il secondo animale. Il gioco continua anche alla base del packaging con la scritta relativa alla Doc (Soave) a testa in giù. Il senso di tutto questo? Forse non c’è. Gli inglesi parlano di “nonsense”. E forse è proprio questo l’insegnamento di questa etichetta: il senso della vita (della vite, in questo caso) che non c’è, o che non lo si vuole cercare o trovare. Vale tutto purché riesca ad attirare l’attenzione? Forse sì. Comunque, papera o coniglio, un senso prima o poi bisogna prenderlo. Più facile dopo due o tre calici.


Brilla il Nome della Vignaiola in Mezzo alle Lucciole

Le Lucciole, Sangiovese, Chiara Condello.

Ecco uno dei tanti progetti “pilotati” da una donna vignaiola, che negli ultimi anni hanno preso piede nell’Italia del vino. Chiara Condello è una giovane produttrice che ha posto la propria sede e i vigneti a Predappio, in frazione Fiumana. La produzione è incentrata sul Sangiovese (di Romagna), con la modalità biologica nel massimo rispetto dell’ambiente e delle tradizioni. I vino si chiama “Le Lucciole” e viene vestito ad ogni annata con una illustrazione diversa. Differente il packaging ma unico il concetto che Chiara esprime in questo modo: “Perché mi accorgo di essere felice solo adesso, guardando le lucciole?” e ancora sulla filosofia che contraddistingue l’azienda: “Nei miei vini ricerco l’espressione autentica della mia terra, della sua storia, della sua anima. Immagino un vino di luce, libero da tutti gli artefici dai quali è stato troppo spesso appesantito. Per questo ho scelto di lavorare in modo semplice, seguendo i dettami di una viticoltura biologica e di una gestione artigianale della cantina”. Le illustrazioni in etichetta (abbiamo scelto questa, dove le stelle brillano come lucciole) hanno uno stile informale, immediato, moderno, sognante. In quella che qui abbiamo riportato, una piccola figura umana, in basso a destra, osserva l’immensità del cielo cosparsa di astri luminosi. La scritta “Le Lucciole”, in basso a sinistra, è poco leggibile ma poetica. La comunicazione e la valorizzazione del prodotto vengono affidate in modo particolare al nome e cognome della proprietaria, in una tipica matrice di marketing che privilegia il “metterci la faccia”. E sembra che possa funzionare.