Langhe Nevose a Tinte Forti

Roccia, Blend di Rossi, Az. Agr. Valletti Roberta.

Si tratta di una piccolissima realtà con sede e produzione a Novello, comune molto vicino a Barolo, in provincia di Cuneo. Insomma, nelle ormai mitiche Langhe. L’azienda è condotta da Roberta Valletti con il marito (nel “logo” aziendale, viene prima il cognome e poi il nome, come si usava un tempo… ma sarebbe anche il caso di invertire gli addendi, più corretto ed elegante). Attualmente questi giovani viticoltori producono solo due vini, una Nas-cetta, si scrive proprio così, con il trattino (vino bianco autoctono piemontese) e un Langhe Rosso. Le etichette sono caratterizzate unicamente da illustrazioni pittoriche molto colorate, realizzate dal fotografo albese Bruno Murialdo. Abbiamo deciso di mostrare quella del vino rosso che raffigura in modo artistico, enfatico, possiamo dire anche “caricaturizzato”, il tipico panorama della zona: colline morbide ma anche scoscese, alture caratterizzate da piccoli borghi, appezzamenti vitati distinti tra loro con colori molto vivaci. Alla base, in basso a destra, dell’elaborato vediamo scritto in piccolo il titolo “Neve sulle Langhe”. Infatti nel cielo plumbeo si stagliano delle nuvole e una miriade di fiocchi di neve. Curioso l’estro artistico che mette a confronto il bianco della neve e i colori forti, logicamente prima che il bianco mantello fatato li possa ricoprire. Sotto al disegno troviamo il nome del vino, “Roccia”. Bello, breve, forte, concreto, fonetico. Evidentemente in riferimento alla tipologia di terreno dove crescono le uve che servono a produrre questo vino. 

Simbolismi da Massoneria in Monferrato Alessandrino

Fabula n. 4, Nebbiolo, Rossetto Vini.

L’azienda ri-fondata da Flavio Rossetto sulla base degli insegnamenti del nonno, ha deciso di chiamare i propri 4 vini Fabula n.1, n.2, n.3 e n.4. Il sito internet è in pratica un racconto fondato su argomenti fiabeschi così come il commento ad ognuna delle 4 etichette, sorprendenti, realizzate da un’artista della zona (Monferrato alessandrino). Le etichette sono tutte belle e molto fantasiose, abbiamo preso in esame quella del Nebbiolo che si presenta con un’inquietante occhio che ci osserva dall’interno di un melograno (con tutte le valenze apotropaiche di questo magico frutto rosso invernale) e, in alto, una mano che regge un pesce, con un simbolismo da massoneria. Il curioso artefatto attira l’attenzione, non c’è dubbio. Questa favola viene così, in breve, raccontata, nel sito internet del produttore: “Una biscia dona tre poteri ad una giovane ragazza che non si spaventa al suo cospetto: il primo è la capacità di piangere lacrime di color argento, il secondo di far piovere semi di melograno dalla testa e il terzo, il più importante, bere ogni volta che volesse un calice del Nebbiolo Doc di Rossetto”. In effetti, guardando bene, tra il fogliame che circonda il melograno, si vede una biscia (se non bastasse l’inquietudine generata degli altri elementi). Nella parte bassa dell’illustrazione vediamo un pendente che sembra una perla. Ancora più sotto, alla base del packaging, in nero su sfondo oro e quindi poco leggibile, il nome dell’azienda. Non c’è dubbio che questa etichetta possa farsi notare. E questo è, almeno in parte, risolutivo.

Un Chianti che è Tutto un Film

Continuavano a Chiamarlo Trinità, Sangiovese, Rocca delle Macie.

Il nome di questa edizione speciale di Chianti è anche il titolo di un noto film degli anni ‘80 che ha come protagonisti gli indimenticabili Bud Spencer e Terence Hill. Infatti il fondatore di Rocca delle Macie e il produttore del film, coincidono. Si tratta di Italo Zingarelli, ricordato da parte dei figli con questa bottiglia celebrativa dei 50 anni dell’azienda. In omaggio a una delle più note produzioni cinematografiche italiane, il vino si chiama (per esteso) “Continuavano a Chiamarlo Trinità”. Nel disegno che troviamo sopra al nome del vino ecco una riproduzione della figura del fondatore a cavallo (che somigliava molto a Bud Spender e con il quale ha condiviso molti momenti della vita oltre che sul set). L’etichetta è di forte impatto: carta goffrata e preziosa, belle illustrazioni, nome del vino in inchiostro dorato e in rilievo, dedica e firma dei tre figli, logo alla base. Certamente il nome del vino la fa da padrone, nel senso che tutti in Italia (ma anche all’estero) si ricordano di questo film e trovare qualcuno che non l’abbia mai visto è impresa non facile. La bottiglia, chiaramente, gioca le sue carte su questa ridondante notorietà, ma lo fa con una grazia ed una eleganza grafica che rendono il tutto molto piacevole e condivisibile,

Il Senso della Vita in un Tralcio di Verdicchio

Terre Silvate, Verdicchio (e Trebbiano), 
Azienda Agricola La Distesa.

Etichetta molto “naturale” per Corrado Dottori, una delle più recenti rivelazioni della viticoltura marchigiana. Il vino, a base Verdicchio, si chiama Terre Silvate (da “silva” in latino, foresta) e al centro dell’etichetta vediamo una bella raffigurazione di un tralcio. Ma è la filosofia di questo produttore che ci ha colpito, il suo modo di pensare e, di conseguenza, di produrre vino. Non ci rimane, per questo post, che lasciare spazio alle sue parole che dicono tutto: “A pensarci bene i miei vini sono solo un mezzo. Il mezzo con cui cerco di esprimermi, di rappresentarmi in questo mondo, di dare un senso al mio rapido passaggio sulla terra. Non ho mai smesso di vivere di sogni. La mia ambizione è quella di creare un luogo, uno spazio, che sia contemporaneamente fuori dal mondo eppure fortemente radicato nella contemporaneità. Che tra-passi certe contraddizioni solo apparenti: città e campagna, progresso e conservazione, lavoro manuale e intellettuale, tecnologia e umanesimo. Un luogo da dove poter guardare la realtà con la convinzione di stare su una strada differente. Non mi interessa solo fare una bottiglia di vino per venderla su un mercato. Mi piacerebbe, invece, con quella bottiglia di vino raccontare la storia dei contadini marchigiani, contribuire a veicolare biodiversità, ecologiche e culturali, tentare di indicare possibilità differenti. In questo senso il vino è uno strumento eccezionale. Può essere un vero paradigma di un "locale" culturale che si fa "globale" economico. Di un manufatto "originale", nel senso che non può prescindere da una specifica e costituente origine. Ma che viene scambiato su un mercato globale, nel senso meno deteriore del termine: non il grande mercato della finanza improduttiva. No. I mercati come scambio, contaminazione, dialogo delle identità e delle culture. Questo vorrei che fosse il mio vino. Qualcosa che parla dell’Italia, delle Marche, di Cupramontana, di me stesso. Qualcosa che si versa nel bicchiere per far stare bene la gente. Per farla ubriacare di vita. Per rendere un po’ più innocuo il vuoto”.

Il Dare e Avere di un Bordolese Biologico Toscano

Do ut des, Blend di Rossi,
Fattoria Carpineta Fontalpino.

Il racconto di questa azienda toscana, che si trova a Castelnuovo Berardenga in provincia di Siena, può ragionevolmente iniziare dal suo nome, come scrivono i titolari nel  sito internet: “Carpineta Fontalpino è l’antica denominazione della nostra terra, figlia dei luoghi storici in cui si trova: la carpineta, luogo di alberi di carpino, pianta dalle foglie con il dorso color argento, e il fonte-al-pino, in richiamo ad una sorgente secolare, un tempo circondata da pini, che si trova all’interno della nostra tenuta”. Un nome storicamente e concettualmente circostanziato fa sempre buon gioco. L’azienda oggi è diretta da Filippo e Gioia Cresti, fratello e sorella, e può vantare una datazione che risale al 1800. Qui riportiamo l’etichetta del loro vino top di gamma, un “supertuscan” generato da vitigni Cabernet Sauvignon, Merlot e Petit Verdot, che si chiama “Do ut des”. La spiegazione del nome del vino, sempre da parte del produttore è questa: “Conduciamo l’azienda agricola che hanno costituito i nostri genitori lavorando intensamente, con la consapevolezza che il lavoro della terra dà solo a chi fatica e si impegna, poiché nulla si ottiene senza sacrificio. Non a caso, abbiamo dato il nome di “Do ut des” al nostro vino più pregiato: do, affinché mi venga dato. Una preghiera alla nostra terra”. Tecnicamente, dal latino, “Do ut des” viene tradotto con (da Treccani): “do (a te) perché tu dia (a me). Nel diritto romano, denominazione di un tipo di contratto innominato, che si configura quando la prestazione già eseguita e quella che si aspetta in cambio consistono entrambe nel trasferimento di proprietà di una cosa (permuta)”. In etichetta, a tutto campo, ma spostato sulla destra, vediamo un fiore rosa, probabilmente una delicatissima camelia che dona al packaging un aspetto decisamente femminile (mentre il vino e di quelli che potremmo definire “maschili”). Nel complesso eleganza e classe: sensazioni di qualità e cura.

Nella Spirale di un Rosato Azzurro

Rissoa, Rosato, Tenuta Campo di Sasso (Biserno).

Questo rosato “di mare” è il frutto di un grande progetto vinicolo messo in atto da Ludovico e Piero Antinori. Progetto che inizia con la Tenuta di Biserno e si allarga poi alla Tenuta Campo al Sasso, di cui questo rosato a base Cabernet Franc (con Syrah) fa parte. Le tenute sono ubicate a Bibbona, in Alta Maremma, confinanti a nord con il celebre territorio di Bolgheri. Il clima in particolare, brezze marine che inflatano beneficamente un entroterra ancora selvaggio, favorisce la produzione di vini freschi come questo rosato di ispirazione provenzale. L’etichetta è di estrema sintesi: su un fondo azzurro vediamo una conchiglia e il nome del vino: Rissoa. Il collegamento è diretto: la Rissoa Desmarest è un genere di molluschi gasteropodi. In pratica si tratta di una conchiglia di forma conica con la classica “scultura assiale”, cioè una struttura scalettata a spirale. Naturalmente si tratta di un genere che vive nel Meditterraneo e che si può trovare sia in vivo che come fossile lungo il perimetro della Costa Toscana. Questa modalità di etichetta che lascia tutte le altre informazioni sul retro, possiamo definirla come “scenografica”. Infatti la libertà di agire su tutto il fronte con pochi elementi d’impatto consente di mettere in luce una certa spettacolarità del packaging, come in questo caso. Otticamente molto attenzionale e concettualmente appropriata.

Il Dio Romano che Guarda Avanti (ma Anche Indietro)

Colle di Giano, Friulano, Stroppolatini.

La storia, diciamo pure la leggenda, di Giano Bifronte è nota ai più. La sua effige spesso viene utilizzata sulle etichette dei vini, per il suo valore culturale e per il significato che porta con sé. Infatti, Giano, in latino Ianus, è una delle divinità più antiche e importanti della religione degli Antichi Romani. Viene raffigurato, come in questa etichetta, con due volti: uno che guarda al passato e uno che si rivolge al futuro. Questo il significato di questa postura (esiste anche un Giano Quadrifronte che si rivolge ai quattro punti cardinali). In questo caso, nel packaging di questo Friulano (vitigno autoctono che una volta si chiamava Tocai) il riferimento è anche al nome del Colle (di Giano) dove maturano le uve che danno vita a questo vino bianco. Molto elegante il colore di fondo dell’etichetta: possiamo definirlo come un grigio-azzurro, sul quale vengono “applicati” i componenti della grafica. In alto il cognome (molto particolare) della famiglia titolare dell’azienda: Stroppolatini. Scritto in oro e sormontato dallo stemma araldico. Al centro la riproduzione di una scultura con i due volti di Giano, e alla base le diciture di legge e il nome del vino, in giallo, per fornire opportuna evidenza. Nel complesso si tratta di un’etichetta gradevole, che richiama la cultura latina, madre di tutte le italianità, dalla Sicilia al Friuli. Classica, certamente, ma con una scelta cromatica di fondo che le consente un’ottima distintività.

Secoli di Storia Riuniti in un Castello Tricerchiato

Castello Tricerchi, Brunello di Montalcino.

Una lunga storia caratterizza l’avvicendarsi di generazioni nella sede attuale di questa azienda di Montalcino. Un castello, 400 ettari di terreno dei quali 13 vitati, danno vita a un sogno che il discendente della famiglia Tricerchi, Tommaso Squarcia ha coronato con una produzione qualitativa di Brunello. L’attuale produttore prende in mano l’azienda nel 2015 ma la storia di famiglia risale al 1441. In etichetta viene evidenziato lo stemma di famiglia, in argento su fondo nero, in modo elegante ma non sfarzoso. Sotto ai simboli della casata troviamo una scritta in latino: “Non in latera pro nos”, traducibile con “nessun lato per noi”, motto coniato dall’avo Alessandro Tricerchi durante la Battaglia di Montaperti con il significato di “non ai lati ma dritti al cielo, per amore di queste terre”. Diventato oggi motto aziendale. In alto, a caratteri molto visibili, il nome dell’azienda, Castello Tricerchi. In basso la Docg Brunello di Montalcino. Il vino non ha un nome proprio, ma in questi casi parla la denominazione, laddove Brunello è parola già sufficiente a smuovere gli ardori degli appassionati del vino rosso e del Sangiovese Grosso.

Quella Simpatica Leggerezza dell’Essere

Maria Elena, Pigato, 
Società Agricola Lorenzo Ramò.

Il Pigato è un vitigno tipicamente ligure, della zona tra Imperia e Albenga, praticamente una versione locale del Vermentino. Il suo nome deriva dal dialetto ligure “pigau” che significa “macchiato”, in riferimento alla puntinatura dorata che appare sugli acini maturi. Questo Pigato si chiama Maria Elena, nome dell’attuale produttrice che ha ereditato l’azienda da nonno e padre, viticoltori prima di lei. L’azienda è specializzata nell’Ormeasco di Pornassio (dove ha sede), un altro vitigno autoctono (rosso) ligure. Dopo alcuni anni si è deciso di ampliare la gamma anche con un bianco, ed ecco questa bottiglia dall’etichetta molto primaverile che raffigura a tutto campo una silhouette femminile, molto elegante, con un calice in mano e con una foglia di vite che le fa da gonna. Idea originale e ben realizzata a livello grafico. In alto unicamente la dizione “Pigato” ad affermare l’importanza delle scelta molto geolocalizzata di produrre questa eccellenza ligure. Si tratta di un packaging insolito, che rimanda le diciture di legge sul retro e dedica quindi tutta l’ampiezza del fronte-etichetta ad una raffigurazione emozionale e, certamente, nel nome del vino, ad affermare la paternità del prodotto, in questo caso maternità, della giovane produttrice. Leggiadra, piacevole, simpatica, rassicurante. 

Tre Angeli, anzi Due, per Celebrare Syrah e Pinot Nero

Sarica, Syrah e Pinot Nero, Pisoni.

Questa etichetta del produttore trentino Pisoni è votata alla dualità. Innanzitutto per i vitigni che compongono questo vino, una insolita unione tra Syrah (in prevalenza) e Pinot Nero. Anche nel nome si può scorgere una dualità: Sarica infatti è l’unione dei due nomi delle due figlie degli attuali titolari: Sara e Federica. E anche per quanto riguarda l’immagine al centro dell’etichetta vediamo due elementi, due volti, in particolare due angeli, forse ancora un riferimento affettuoso alle due figlie. Si tratta, per la precisione, del particolare di un famoso dipinto di Giulio Cesare Procaccini, datato 1620 (titolo: Abramo accoglie tre angeli), frutto dell’estro del noto pittore e scultore considerato tra i massimi esponenti della scuola barocca lombarda. Il Procaccini, insieme al fratello Camillo, lavorò a Torino per la casata dei Savoia. Questo capolavoro si trova infatti tutt’ora a Palazzo Madama, a Torino, nella Sala Guardie. Tornando al packaging possiamo notare che il nome del vino è realizzato in corsivo con un inchiostro luminescente e in rilievo. In alto vediamo il logo che rappresenta un castello e in basso il nome aziendale di famiglia. Carta leggermente rugosa e cremisi, elegantemente classica. Etichetta che espone i propri elementi salienti in modo ordinato e ben intelleggibile.

Lampi d’Oro e Vigne Ardite in Terra Tirolese

Freienfeld, Chardonnay, Kellerei Kurtatsch.

Etichetta di pregio per la Cantina altoatesina di Cortaccia: emergono inchiostri speciali d’oro e d’argento, su una carta di spessore. Ma andiamo con ordine. Il nome del vino è in grande evidenza, in alto, con un carattere di scrittura snello e leggibile. Nonché abbastanza austro-ungarico. Il nome deriva dall’omonima tenuta rinascimentale, dove nel 1900 è stata fondata la cantina. Nome geo-storico quindi, che rinnova le tradizioni e conferma la databilità dell’attività in atto. Sotto al nome ecco la dicitura “Chardonnay Riserva” come da disciplinare, che definisce vitigno e tipologia di lavorazione (barrique e botti grandi di rovere). Al centro dell’etichetta troviamo una illustrazione con stilemi antichi che raffigura principalmente tre vèstali (forse sarebbe opportuno definirle “svèstali”) attraversate da un luminescente lampo in oro. Tre dee? Tre sibille? Tre ancelle? Il mito ci pervade e va bene così. Sotto al disegno leggiamo “Sudtirol - doc - Alto Adige”, a norma di legge e, alla base del packaging, in un tassello nero separato del resto, vediamo il nome dell’azienda in tedesco e “cantina” bilingue. In questa regione che in pratica fa stato a sé, non sempre vengono tradotte in italiano le parole della lingua locale. Ma il vino è buono. L’accoglienza un po’ meno.

Un Tuffo nella Tradizione e nell’Innovazione Altoatesina

Ricordi, Schiava, Leya Weingut.

Il giovane viticoltore che ha dato vita a questa azienda altoatesina ha un nome “straniero”, Malcolm, e un cognome italico, Salvadori. Come spesso accade in quelle terre di confine, le popolazioni, le tradizioni, gli usi e i costumi si mescolano dando vita a persone e prodotti di indubbio interesse. In questo caso mostriamo l’etichetta di uno dei vini dell’azienda, una Schiava 100% che matura a ben 600 mt di altitudine, a Prissiano (mentre la cantina si trova nella più nota Terlano). Il vino si chiama “Ricordi” e la bella illustrazione che troviamo nella grafica del packaging lo conferma: un vecchio trattore che immaginiamo possa essere appartenuto agli avi del giovane Malcolm o comunque a qualche contadino d’altri tempi (ma se ne trovano tutt’oggi perfettamente funzionanti). Sotto al disegno del trattore blu troviamo il nome del vino, scritto con un corsivo molto sottile, che quasi, a distanza, non si legge. Il nome dell’azienda ancora sotto, Leya (non siamo riusciti a risalire al significato di questa parola) e alla base, in un tassello scuro, forse troppo scuro, il nome del produttore. Siamo di fronte a una etichetta che fa della semplicità la sua forza. Non priva di qualche spiraglio di perfezionamento, ma in grado già così di incuriosire ed attirare acquirenti. Logico che il racconto del vino e di chi lo produce può ben completare l’opera.