Il caso è strano, quindi raro, perché questo vino non riporta il proprio nome sul fronte dell'etichetta, bensì solo sul retro. Del resto la grafica del fronte è alquanto bizzarra, molto affollata di forme e colori, un kitsch gitano di variegata ridondanza. Ma andiamo con ordine: il vino, prodotto con un 50% di Sangiovese e un 50% di Colorino, si chiama "Minnaemoro" (o Minna e Moro), il riferimento è chiaramente all'accezione "m'innamoro", ma anche alla suo caratteristico sentore di mora (dice il produttore). Resta da decidere cosa può richiamare la parola "Minna" che in siciliano significa "tetta", seno di donna, terminologia gergale ma abbastanza conosciuta in tutta Italia (c'è anche un dolce tipico che si chiama "minna di virgini" (in italiano "seno di vergine"), dolce tradizionale di Sambuca di Sicilia). In etichetta (design): cuori, casette, arcobaleni, scorpioni, altre varie decorazioni artistiche. L'unico riferimento coerente sembrano essere i due cuori, a sancire una sorta di unione di coppia, di innamoramento. Packaging comunque molto disorientante, in fin dei conti.
Chiaretto, Vinello, Rosatello e Via Discorrendo.
Chiaretto, Garda Classico Doc, Società Agricola Taver.
Parleremo brevemente del "chiaretto". Non tanto come vino, del quale, in alcuni casi se ne trova di ottima qualità. Ma della parola. Perché le parole sono importanti, nella vita di tutti i giorni e anche per il vino e il suo apprezzamento. "Chiaretto" non è una parola nobilitante. Sminuisce. Un po' come "prosecchino" o "vinello", o anche "rosatello". Chiaretto allude al colore di questo vino che indubbiamente è, deve essere, di un rosa più o meno pallido. È anche dicitura legale "chiaretto garda classico doc". Ma perché reiterarlo, oltre ad evidenziarlo? In questa etichetta (ci scusiamo ma l'abbiamo trovata solo "sdraiata") la parola "chiaretto" viene riportata due volte, in modo evidente e la seconda, la più grande, con colori molto visibili. Certo, va evidenziata la tipologia di vino di cui tratta la proposta commerciale, ma non siamo davanti a un Barolo, a un Barbaresco, a un Amarone, a un Chianti, nomi altisonanti, non solo per fama acquisita ma anche perché definiscono vini di un certo spessore. Il "Chiaretto" ne esce male, timidino, sciapino, pallidino, dà quasi l'impressione di non sapere di nulla e la parola non aiuta. Non stiamo parlando di questo vino in particolare, del quale non conosciamo le caratteristiche organolettiche non avendolo assaggiato ma, ripetiamo, della sua etichetta, prendendolo come esempio per la categoria. La nobilizzazione del Chiaretto non sarebbe facile per nessun marketing, ma almeno bisogna cercare di nasconderne le debolezze.
Dove Volano le Aquile
4478, Spumante Metodo Classico, Quatremillemetres Vins d’Altitude.
L'etichetta di questo spumante "d'altura" parla di nobile effervescenza (Nobleffervescence, la dizione esatta che appare sotto al nome). Un modo nuovo per definire la modalità più classica per produrre bollicine, il Metodo Classico appunto (qui menzionato con "Methode Traditionelle"). Originalità nelle parole, quindi. Sfruttando anche il francese, la seconda lingua ufficiale della Valle d'Aosta, patria di questo vino che si avvale di uve coltivate a ben 750mt di altezza. Ed è proprio l'altezza, l'altimetria, a caratterizzare l'etichetta, di forte cromia arancione, con un nome che è tutto un numero: 4478. A cosa si riferisce questo numero? All'altezza ufficiale sul livello del mare di una montagna che i valdostani stimano e rispettano, il Cervino. Che loro chiamano "Gran Becca". A confermare le doti di "scalatore" di questo vino, nella parte superiore dell'etichetta vediamo la stilizzazione di un'aquila, poggiata su dei picchi. In Valle d'Aosta, infatti, i "bricchi" piemontesi diventano "picchi". Questioni orografiche. In questo caso il concetto viene reso in modo forte e coerente. Vino di alta montagna, dove il pinot nero corrobora la sua forza olfattiva e gustativa con una freschezza acida che il clima di montagna, certo, agevola. L'impresa vinicola nasce dall'unione di tre storiche realtà valdostane: Cave du vin blanc de Morgex et de La Salle, Cooperative de l'Enfer di Arvier e Crotta di Vigneron di Chambave. I nomi "numeri" non ci sono mai piaciuti, ma in questo caso c'è una indubbia coerenza con il tutto e il racconto fila.
In Nome del Buon Nome Serve un Bel Nome
Malintoppo, Sangiovese, Aziende Agrarie Simonelli-Santi.
Poniamo di non sapere nulla dell'azienda che produce questo vino e della sua zona di provenienza (certo, lo stile dell'etichetta suggerisce già che siamo in Toscana, anche senza leggere le diciture in piccolo che indicano la località). A questo punto, cosa potrebbe significare "Malintoppo"? Parola composta, da "Mal" e "intoppo". Due accezioni negative, a ben guardare. Un intoppo infatti è un ostacolo, un tramesto, un problema. Se poi è preceduto da quel suffisso così venefico com'è "mal, male", la questione si complica invece che appianarsi. Stiamo forzatamente esagerando, lo facciamo per sottolineare che a volte le parole sono come lame (e invece dovrebbero essere più come frecce, che "colpiscono il segno"). In questo caso scopriamo nel sito del produttore che il nome origina da "Villa Malintoppo", una delle residenze storiche di una delle famiglie che hanno dato luogo a questa impresa vinicola. Non abbiamo trovato altri riferimenti semantici o etimologici in merito. Probabile che si tratti di un cognome antico o di una menzione toponomastica. Fatto sta che il vino si chiama "Malintoppo". E questa cosa secondo noi un po' nuoce al "buon nome" del prodotto. Per il resto, come evidenziato all'inizio di questo post, il design dell'etichetta è così classico che più classico non si può. Elegante grazie al fondo scuro. Certo ben equilibrati tutti i componenti, nomi, definizioni, localizzazioni e quant'altro (un po' di affollamento). Belli e ben realizzati gli stemmi storici protagonisti dell'etichetta in alto.
Questo Nome è una Figata, Pardon, Phigaia
Phigaia, Cabernet Franc Merlot e Cabernet S., Serafini & Vidotto.
Ebbene, siamo di fronte a un caso eclatante di naming. Non è per fare facile umorismo, seguiamo solo un filo logico: se Sassicaia richiama alla zona sassosa dove crescono le uve che fanno nascere quel vino, se Perticaia è relativo alle pertiche e se Uccellaia (esiste, è un'azienda vinicola) è relativo all'uccellagione, cosa dovremmo pensare di Phigaia? Dunque, la forma semantica "ph" è nota, si riferisce al greco antico, ad esempio la filosofia (in greco antico φιλοσοφία, philosophía, composto di φιλεῖν (phileîn), "amare", e σοφία (sophía), "sapienza", ossia "amore per la sapienza". Ma, altro esempio, tutt'oggi "philofobia" è sui dizionari di italiano come "paura di amare". Torniamo quindi al nome "incriminato" e tutto sommato simpatico (nonché in grado di attirare molta attenzione, come è naturale, diremmo anche ancestrale, che sia), "Phigaia", nome di un vino prodotto in veneto, provincia di Treviso da una stimata azienda locale, vino, tra l'altro, di ottima qualità, dice chi lo ha provato. Ce lo ha indicato una nostra amica, Alessandra, sommelier Fisar, toscana, (https://www.instagram.com/amaccanti/) che lo ha fotografato e pubblicato su Instagram, oltre ad averlo assaggiato. E qui sta un altro mistero: i nomi dei vini che finiscono in "aia" sono quasi tutti toscani, e invece questo "Phigaia" è veneto, una specie di taglio bordolese che starebbe bene a Bolgheri, ma che viene prodotto sui Colli Asolani. Da notare anche la curiosa ed insolita sottodicitura in inglese "after the red". Del resto il design dell'etichetta si presenta bene: pulito, elegante, equilibrato. Cosa aggiungere se non che questo "Phigaia" è una phigata, pardon... una figata (parola ormai sdoganata) per chi scrive di naming come noi. Da cosa sarà stato ispirato? Piante di fichi nel vigneto? Chissà. Nel sito non se ne parla ma non mancheremo di chiedere al produttore notizie al riguardo. Certo se dovessimo scoprire che presso i vigneti di Serafini & Vidotto c'è un "giacimento", allora l'enoturismo di quella zona potrebbe avere un picco verso l'alto.
Nomi Descrittivi: Quasi un Poema.
Un po' più su del mare, Vermentino, Mulini di Segalari.
Questo produttore di Castagneto Carducci (Bolgheri Doc e dintorni) ha deciso di chiamare i propri vini con delle descrizioni di luogo: il nome del vino a base Vermentino, ad esempio, è "Un po' più su del mare". Un altro nome di vino della medesima azienda è, per il rosato "Ai confini del bosco". Altri più sobri e brevi: "Soloterra" (Sangiovese) e "Mulini di Segalari" (taglio bordolese). I primi due, soprattutto, non lasciano spazio a commenti sulla semantica, sono descrittivi e questo basta. Il loro limite è quello di essere molto lunghi, per cui rischiano di farsi ricordare solo approssimativamente, tipo "quel vino che viene poco più sopra del mare" o "sulla collina vicino al mare" o altro che la fantasia di chi lo ha visto e bevuto può generare. Si tratta di accezioni originali e insolite, questo sì. Altro elemento negativo è la leggibilità: la grafica delle etichette, molto "disegnate", molto colorate, non aiuta. Un design più ordinato e ragionato, in termini di fondo e cromìe, avrebbe facilmente aiutato la comprensione e la fruizione del nome e degli altri elementi verbali dell'etichetta. Non possiamo fare altro che aggiungere: viva la fantasia (e cosi sia)!
Le Parole Sono Anche Sillabe
Pucino, Prosecco (Australiano), Dal Zotto.
In questo caso ci sentiamo di soprassedere sul nome, comunque strano, "Pucino", probabilmente dovuto all'intenzione di questo produttore australiano di dare sonorità italiche al proprio vino. Forse problemi anche di registrabilità (brevetto) hanno portato a una parola strana. Che non convince. L'attenzione di questo post va quindi tutta al marchio dell'azienda, che riporta il cognome della famiglia (di chiare origini venete o trentine). Sulle etichette e nei supporti di comunicazione (principalmente on-line) questo cognome viene presentato spezzato. Ma non, come potrebbe essere "naturale" e cioè "Dal Zotto", bensì "Dalz Otto". Certo, a livello grafico, viene comodo disporre 4 lettere sopra e 4 sotto, ma dal punto di vista linguistico, semantico, fonetico e letterale la questione funziona meno. "Dalz Otto" confonde la mente. La prima parola, terminante con una "z" risulta dura, ricorda il "tanz" tedesco (da "tanzen" ballare), la seconda parola genera un numero, 8, che porta in mondi matematici o, anch'esso tedesco, verso un nome proprio di persona, Otto. Il design del logo non è male: la scelta del carattere di scrittura, probabilmente creato ad-hoc, connota il marchio in modo moderno e funzionale, salvo, appunto, la strana spezzatura delle sillabe. E infine, soprassediamo pure sul tappino in metallo. Probabilmente funzionale, ma una caduta di stile a livello di immagine.
La Filosofia del Vino (e nel Vino)
Ritorno, Barbera, Virgilio Sandoni.
Si tratta di un caso particolare, come naming, in quanto nel packaging viene proposta una parola in greco antico (più evidente) e di fianco la traduzione in italiano. Due nomi quindi, di fatto affiancati. La natura "colta" di questa etichetta, dai toni classicheggianti anche per il design, emerge subito con la breve citazione in alto a sinistra che qui riportiamo (perché le dimensioni dell'etichetta qui mostrata sono ridotte: ci scusiamo, ma in rete non è stato possibile reperire un'immagine più definita di così): "Per gli uomini, che accada tutto ciò che desiderano non è la cosa migliore" (Eraclito). Citazione che trova anch'essa traduzione, questa volta dall'italiano al greco antico, sulla destra. Il nome del vino conferma la vena filosofica del concept con l'accezione in greco che significa "Ritorno" e che viene spiegato bene dal produttore nel proprio sito: "La scelta del nome, quasi un titolo, è un chiaro riferimento al mondo classico, al tema del ritorno, qualsiasi esso sia: in patria, nella propria casa, in sé stessi.Vuole quindi essere beneaugurante, sottolineare il valore che in tutta la sua storia il vino ha sempre avuto: per accogliere un ospite, per rallegrare un incontro, per mitigare uno scontro , per rinsaldare il proprio spirito. Confidando che sempre ci possa essere, nonostante i mille travagli dell’esistenza, un momento tranquillo, rassicurante, come un abbraccio, o meglio ancora esaltante. Una conferma dei valori in cui crediamo". Ben scritto e argomentato da parte del produttore stesso, immaginiamo, visti i suoi trascorsi accademici in campo, appunto, filosofale. Un'altra particolarità di questa etichetta è la precisazione, subito sotto al vitigno "Barbera", che dice "Affinato in carati". Serve anche a distinguere questa Barbera dall'altra, sempre della medesima azienda, che si chiama "Ubris" in greco antico (tradotto in Orgoglio) e che riporta invece "Affinato in acciaio".
Divinità dell'Antica Roma per Vini Moderni
Ops Consiva, Spumante Charmat Falanghina,
Campi Valerio.
Campi Valerio.
Anche un Trebbiano può Avere Cuore
Non si tratta di un vino pregiato, anche perché ottenuto dal "plebeo" Trebbiano: diciamo che è un vino "di mercato". Ma il produttore ha trovato la strada giusta per attribuirgli un nome interessante e un'etichetta onorevole. Vediamo il nome: "Cuor di Vino". Nella sua banalità (quante volte avremo sentito giochi di parole con Vino-Divino et similia!) questo nome si esprime con simpatia (grazie anche al carattere di scrittura, non molto leggibile ma allegro e allegorico) e va dritto al punto: cioè dire (al di là dei possibili giochi di parole fugati, in questo caso, dal "di" distinto e separato da "vino") che dentro a questa bottiglia c'è il cuore del vino cioè il meglio, la summa, la selezione. E quindi anche se il vino non appartiene agli strati nobili del settore, la sensazione che vuole trasmettere è nobilitante. L'etichetta si difende bene anche per il design: equilibrato, pulito, e soprattutto abbastanza originale per la scelta cromatica: nero abbinato al turchese. Il risultato è una grafica elegante ma non stopposa, con simpatia e immediatezza: buon karma, insomma. A dimostrazione che anche un Trebbiano di Puglia può accedere alla tavola a collo (di bottiglia) alto.
La Conto degli Addendi non Torna
La fin troppo estrema semplicità di questa etichetta sembra voler essere la sua peculiarità e forza. Diciamo "sembra" perché sia pure nella limitatezza degli elementi che la compongono, merita una attenta analisi. Quali sono quindi i pilastri costituenti il design di questo Syrah in purezza? Il logo aziendale in alto, con la "M" iniziale in evidenza (colore diverso), il nome del vino "Scrio" e un ricciolo, probabilmente a riprodurre un flutto di vino nel bicchiere (o un pàmpino), in altorilievo, cioè sensibile al tatto (un po' meno alla vista). Analizzandoli uno a uno: il nome aziendale, noto e stimato, viene messo in evidenza ma senza esagerare, bene. Il nome del vino si avvale di una scelta di carattere di scrittura particolare, elegante, originale. Inoltre il color mattone (o color vino, se vogliamo) lo stacca dal fondo e lo colloca in primo piano (anche a causa delle sue dimensioni, logico). Il ricciolo goffrato aggiunge eleganza, parla la lingua del design con molto understatement (non si fa notare troppo). Questo nei particolari. Ma un'etichetta è fruibile sostanzialmente nel suo insieme, ecco perché in questo caso ci sentiamo di citare l'etichetta di "Scrio" come esempio di design nel quale la somma degli elementi (ottimi) è "sottraente". Si ha infatti la sensazione di assistere a una semplicità fin troppo rinunciataria, in termini di espressività, di comunicazione. Chiudiamo con il significato del nome, spiegato dal produttore nel proprio sito internet: "la parola Scrio ha origini toscane e significa puro, schietto, integro. Viene solitamente utilizzata per le persone ad indicarne la purezza d’animo": ennesimo esempio di nome dialettale che potrebbe incorrere in problemi di memorabilità e pronunciabilità soprattutto all'estero.
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