Fieno di Ponza, Biancolella e Forastera,
Antiche Cantine Migliaccio.
È probabile che anche nell’irta Isola di Ponza ci possa essere qualche piccolo campo coltivato a fieno, ma il nome di questo vino non si riferisce alla paglia secca. Si tratta di una geolocalizzazione, come spiega in dettaglio, nel proprio sito web, il produttore, aggiungendo notizie storiche: “Punta Fieno è una delle poche località ancora incontaminate dell’Isola di Ponza. Il difficile accesso via terra (40 minuti a piedi lungo una mulattiera in piena macchia mediterranea) un inesistente approdo via mare, che consiste nel saltare dalla barca sugli scogli, hanno preservato questo posto dal turismo di massa. I vecchi contadini ponzesi vi si recavano ogni mattina all’alba, per coltivare i vigneti, ma oggi sono rimasti veramente in pochi: Luigino, Giustino, zio Aniello e Liberato. A questo esiguo drappello si è aggiunto Emanuele Vittorio, odontoiatra napoletano, figlio di Civita Migliaccio, ma soprattutto nipote di Benedetto Migliaccio, uno dei capostipiti del Fieno. Quando nel 1734 Carlo di Borbone colonizzò l’isola assegnando in “enfiteusi perpetua” vari appezzamenti di terra ai coloni partenopei, assegnò a Pietro Migliaccio, proveniente da Ischia, la zona del Fieno, che, a differenza di altre che erano definite “a bosco” o “incolto”, risultava già “vitato”. Pietro Migliaccio portò da Ischia i vitigni tipici: Biancolella, Forastera, Guarnaccia, Aglianico e Piedirosso, e sono questi gli antichi vitigni a piede franco che Emanuele Vittorio, nipote di Benedetto Migliaccio, ha riportato a nuova vita, salvandoli dagli sterpi che avevano già invaso i filari”. Una storia semplice, che si veste di tradizione, fatica, ardimento, così come di sole e vento. Certo che il nome del vino potrebbe portare al significato classico di “fieno” o ancora, e più facilmente, all’ipotesi di un’errata corrige che riguarda il vitigno “Fiano”, viticoltura frequente al sud. Per quanto riguarda il design in etichetta, la mappa dell’isola “del tesoro”, in stile Pirati dei Caraibi risulta molto cartografica e poco enologica. Ma diciamo che la tipicità di quei luoghi e la particolarità di quelle vigne giustifica, in un certo modo, l’orgoglio campanilista di una indicazione così dettagliata.