Cognomi Storici che Cambiano ma non Mentono


DeSilva, Sauvignon Blanc, Peter Sölva.

Questo storico produttore altoatesino porta con orgoglio in primo piano, alla nostra attenzione, il cognome di famiglia. Quello che è stato e che ha dato origine al cognome attuale: Sölva. Nel sito internet, nell’ scheda dedicata alla storia di famiglia (e di conseguenza dell’azienda), si racconta che… “Questo nome di famiglia è un'eredità dei nostri antenati, a cui dedichiamo tutto il nostro rispetto. DeSilva è sinonimo di selezione dell'uva e cura dei vigneti più vecchi secondo una lunga tradizione. La provenienza e il carattere dei nostri vigneti fanno la differenza. DeSilva è stato il nome originario della nostra famiglia fino al 1880 circa, quando è stato cambiato in Sölva nella monarchia austro-ungarica. I nostri antenati si stabilirono come viticoltori nel nord Italia, in Alto Adige, intorno al 1200. In quanto cantina storica, fondata ufficialmente nel 1731, è naturalmente molto importante rispettare questa storia e riportarla ai giorni nostri. DeSilva è quindi oggi sinonimo di selezione dell´uva e cura dei vigneti piú vecchi con radici profonde che esaltano il nostro terroir”. Particolare anche lo stemma di famiglia che trionfa nella parte centrale dell’etichetta. Due uomini, che sembrerebbero indossare un turbante, brandiscono come una chitarra (potrebbe essere un Sitar indiano) quella che invece si manifesta come una scimitarra, una lancia insomma, con fare guerresco (o musicale, per come si potrebbe percepire). Lo stemma è adagiato su un fondale in bianco e nero che raffigura una vigna (e che stempera un po’ l’aggressività dei due gendarmi).

Essere Amato Come un Magliocco Rosato


Amaris, Magliocco, Biofattoria Sociale Marinello.


Un vino rosato vestito di azzurro-cielo. Anomalia di un packaging azzardato o nozze prelibate tra cromie d’estate? Non è necessario rispondere, ma di certo questo azzurro intenso si fa notare. Veniamo al nome del vino, innanzitutto: “Amaris” che dovrebbe essere stato “estratto” dal latino. L’Intelligenza Artificiale (ormai i vocabolari non si usano più) ci dice che: “Il significato più comune e grammaticalmente regolare di “amāris” è “tu sei amato” (forma passiva di amāre)”. Bello. Essere amati. E questo vino probabilmente, nella sua metamorfosi da germoglio a nettare, è stato molto amato dal suo produttore (e lo sarà, piacendo, a chi lo verserà nei lieti calici). Nell’etichetta, in alto la stilizzazione di un casale. E subito sotto la definizione dell’impresa, originale: Biofattoria Sociale. Il tutto si colloca quindi in un’area di percezione rurale, sincera, austera, di campagna. Amaris viene definito come “vino biologico” a conferma delle attività “naturali” dell’azienda. Peccato che il nome del vino e la sua definizione vengano scritte con un inchiostro fucsia che sul fondo azzurrone vibra a un punto tale da impedire quasi una immediata lettura. In basso la regione di provenienza (e di coltivazione e produzione) con l’orgogliosa precisazione: “Magliocco in purezza”. Vitigno tipico della Calabria subito connotabile. Etichetta semplice, lineare, che fa venire qualche dubbio sulle scelte cromatiche ma che si vende bene nel contesto in cui opera.

Le Trame Biologiche di una Antica Diramazione


Refosco (dal Peduncolo Rosso), Villa Bogdano 1880.

Il logo di questa azienda veneta attinge a dei ritrovamenti romani nella zona di Portogruaro dove l’Antica Via Annia collegava Padova ad Aquileia. La Dea raffigurata in sintesi nel marchio è Diana: “Il ritrovamento di epoca romana più importante emerso durante gli scavi del 1926 è il gruppo bronzeo raffigurante Diana Cacciatrice, con occhi e diadema in argento, nell’atto di togliere una freccia dalla faretra e lanciarla con l’arco stretto nella mano sinistra. Ai suoi piedi un cane e una cerva; sulla base l’iscrizione votiva del soldato siriaco Titus Aurelius Seleucus a Giove Ottimo Massimo Dolicheno. Il prezioso reperto, risalente al III secolo d.C., è conservato al Museo Nazionale Concordiese di Portogruaro. Dalla figura della dea Diana nasce l’ispirazione per il logo figurativo, che caratterizza la linea vini di Villa Bogdano 1880”. Solide basi storiche, quindi, per un marketing attuale e ben articolato. Ma l’etichetta di questa bottiglia di Refosco non si ferma qui: un’altra particolarità è l’uso dell’inchiostro dorato per rappresentare, sulla destra, quella che sembra una macchia, una sporcatura; in realtà si tratta della trama fogliare di un albero, il Carpino Bianco, il cui nome in latino, “Carpinus Betulus”, viene citato in etichetta in basso, sempre con inchiostro dorato. I vigneti dell’azienda infatti sono attigui ad una riserva naturale particolarmente nota per la sua biodiversità. Coerenza ed eleganza.

Rapimenti Tattili e Organolettici nell’Isola più Greca d’Italia


Nuhar, Pinot Nero e Nero d’Avola, Tenuta Rapitalà.

Due “neri” per questo vino siciliano che ambisce ad essere internazionale. Il Nero d’Avola, tipico della Trinacria e il Pinot Nero che regna sovrano in Francia. Insieme per un’idea di vino completo e complesso. Partiamo dal nome dell’azienda, “Rapitalà”, laddove il rapimento non è criminale ma romantico. Narra di una donna rapita da un tramonto stellare e forse anche dall’amore per un cavaliere (anch’esso nero, viste le dominazioni che la Sicilia ha dovuto subire nei secoli). Ed ecco il nome del vino, “Nuhar”, nel racconto del produttore che troviamo nel sito internet nella scheda del prodotto: “Nel cuore del monte che domina la Tenuta, sono coltivati i vigneti dove selezioniamo le uve per la produzione del Nuhar, “fiore” in arabo. Questo vino nasce dall’unione di due grandi vitigni neri, il Pinot Nero, re di Borgogna, che al caldo di Sicilia risponde con colore, dolcezza e spessore improbabili altrove, e il Nero d‘Avola che in queste condizioni si arricchisce di tannino e corposità”. Molto bello il design dell’etichetta con un elemento figurativo in alto, articolato, prezioso, artistico, evocativo e storico; il nome del vino in chiaro al centro, scritte in colore violaceo in basso, che emergono bene dal contesto. Carta di tipo “tattile”. Preziosità percepita: alta. Ottimo lavoro.

Vetro Verde, Vino Rosso

Bufferìa, Chianti, LU.CE.

Questa azienda toscana diretta da Jacopo Rossi ha deciso di caratterizzare le proprie bottiglia con un nome che non è solo topografico. Nel retro etichetta infatti si legge tutta la storia che qui sintetizziamo: “Le vetrerie di Bufferìa per tutto il XIX secolo, e almeno sino alla prima metà del ‘900, rappresentavano l’attività predominante delle fornaci situate in Valdelsa e nel Valdarno e, in senso più generale, nell’intera Toscana. Producevano vetro per uso comune, ossia quello destinato ad usi domestici, alla tavola e soprattutto all’imbottigliamento e alla commercializzazione del vino e dell’olio. Le vetrerie fabbricavano fiaschi, ampolle da olio, levaolio, imbuti, canne per infiascare, colmatori per botti, con il caratteristico vetro di colore verde”. Il vetro infatti è sempre stato un “prodotto gemello” del vino: è andato di pari passo il loro sviluppo qualitativo e commerciale. Ancora oggi i nuovi materiali fanno molta fatica a scalzare le classiche bottiglie in vetro (che oggi non sono più solo verdi ma anche marroni o incolori). In questa etichetta, di fianco al nome del vino troviamo un disegno con il classico fiasco e un grappolo d’uva. Apprezzabili le scritte in corsivo e in basso la carta sagomata tipo pergamena.

Un Trisnonno Tardivo, Come il Suo Passito


Tardivo (Bianco), Grillo Passito, Foderà.


Nella descrizione di questo vino, ad opera del produttore nel proprio sito internet, troviamo una parola desueta che ha attirato la nostra attenzione: “La storia di Cantina Foderà inizia nel 1849, quando il nostro bisarcavolo Matteo Foderà cominciò a vinificare le uve delle proprie vigne in Contrada Giardinello, a Marsala. Il vino ottenuto da lui e dalle quattro generazioni successive è stato venduto, per oltre un secolo, ai tavernari e alle ditte locali che lo utilizzavano come base per il vino Marsala”. Si tratta della parola “bisarcavolo” che non è una parolaccia. La base è quella di “arcavolo” che significa “trisavolo” (cioè trisnonno, ovvero il padre del bisavolo). Insomma, bisarcavolo sarebbe il padre del terzavolo. Un bel dilemma! Siamo nella Sicilia storica e tradizionale (i termini come “bisarcavolo” e “tavernari” lo confermano) a nord di Marsala, dove un giovane discendente ha iniziato (nel 2001) a produrre vino in bottiglia invece di fornire semplicemente uva ai produttori locali di marsala (il noto vino liquoroso). Il passito a base Grillo qui raffigurato è il risultato di una piccola vendemmia da 900 bottiglie. E di tanto orgoglio territoriale, storico, culturale e anche e soprattutto personale. Il vino si chiama “Tardivo”, una dichiarazione che riguarda il tipo di lavorazione (le uve vengono appassite oltre ad essere raccolte tardivamente). L’etichetta si presenta con una texture di fondo goffrata e nera, elegante e sincera. Il cognome del produttore e della famiglia è Foderà con l’accento sulla “a”. Nell’etichetta non si vede bene, ed è un peccato, perché l’accento viene stampato in oro. Il logo sembrerebbe uno stemma araldico sormontato da un sole radioso.

Uno Zibibbo che Vola Via


Ad Majora, Zibibbo, La Vecchia Tine.

Di questo nome di vino, “Ad Majora”, l’intelligenza artificiale racconta che “… è una locuzione latina che significa "verso cose più grandi" e si usa come augurio per successi sempre maggiori in qualsiasi campo della vita. Si utilizza spesso per congratularsi con qualcuno dopo il conseguimento di un traguardo, come la laurea, una promozione o un matrimonio. “Ad meliora et majora sempre” è la forma più completa che sarebbe: (brindiamo) “a cose sempre migliori e maggiori”. Un brindisi quindi, con un vino bianco tipicamente siciliano, lo Zibibbo, noto anche come Moscato d’Alessandria e imparentato (figlio e cugino) con il Moscato Bianco e il Moscato Giallo, pur essendo più aromatico di essi. Nell’etichetta di questo piccolo produttore marsalese, in alto e in basso, notiamo una corona di voglie di vite, stampate con un inchiostro metallico verde. Al centro un disegno acquarellato dove una “macchina volante” di un tempo (una specie di dirigibile ante litteram) attraversa il cielo con spirito d’intraprendenza. Belle soluzioni grafiche che con semplicità catturano l’attenzione e trasmettono sensazioni di purezza e sogno. L’azzurro, anche se poco utilizzato nel packaging alimentare, dona in questo caso, grazie anche alle nuvole, una percezione di leggerezza a tutto vantaggio di un consumo estivo.

La Felicità di Iniziare Tutto da Zero


Felicitas, Müller Thurgau, Mai Domi.

Innanzitutto il nome dell’azienda, che incuriosisce: “Mai Domi”. Esprime già una forza e una passione particolari, in due brevi parole. Alex Salvi è il titolare di questa piccola azienda che nasce dalla sua esperienza come “tutto fare” presso una nota azienda della Valle d’Aosta, Maison Anselmet. Bella e orgogliosa l’affermazione che si legge in home page del sito aziendale: “Nessun terreno ereditato, nessuna azienda viticola di famiglia. Nasce tutto da zero. Quasi per gioco”. L’etichetta che riveste questa bottiglia di vino bianco (100% Müller Thurgau, insolito per questa zona) è bizzarra: macchie gialle e rossastre su una carta preziosa, ruvida al tatto. Al centro il nome del vino: “Felicitas”, a proposito del quale il produttore scrive: “La felicità nel bere un buon bicchiere di vino, questo è Felicitas. Un Müller Thurgau diverso, intenso. Un mix di profumi di frutta matura che accompagna una beva elegante e golosa. Vino dai più disparati abbinamenti, trova il suo connubio perfetto con il risotto alla crema di porri”. In alto, sopra al nome del produttore (curioso il carattere di scrittura con la “A” aperta) troviamo il logo, che potremmo definire “tribale”. Comunque molto di sintesi e accattivante.

La Coerenza tra Etichetta e Racconto del Vino


Lamettino, Marzemino (Merlot e Sangiovese), Tenuta La Vigna.


Spesso il problema delle etichette dei vini è quello della coerenza con il contenuto della bottiglia. Cioè il (dover) ritrovare una certa corrispondenza “caratteriale” (che diventa percettiva) tra il vino, la sua storia, il suo racconto e quello che di fatto sono gli elementi del packaging. Utilizziamo questa etichetta dell’azienda Tenuta La Vigna di Capriano del Colle (Brescia) di proprietà di Anna Botti (nomen omen). La narrazione (nel sito internet aziendale) dice: “Leggiadria e freschezza, il Marzemino avvolge i sensi con i suoi profumi fruttati, la sua contenuta freschezza e il suo delicato carattere. Un vino vivace, fragrante, elegante, di grande equilibrio”. In etichetta vediamo colori tenui, riconducibili al violetto (con un po’ di verde), disegni armoniosi, gentili, sfumati, con l’immagine stilizzata di un uccello acquatico (sembra essere un Cormorano, chiamato anche “Lamettino”, nome che viene dato a questo vino). Si può dire che c’è corrispondenza. L’essenza del vino, le sue caratteristiche, sono rispecchiabili nell’etichetta. E questo aggiunge equilibrio, cioè credibilità, alla comunicazione. Nel complesso molta eleganza. Uno stile distinguibile che “fa squadra” con tutto il resto.

Cento Anni (e Forse più) di un Vino Vulcanico


Centorami, Aglianico del Vulture, Tenute Agricole Santojanni.

L’Aglianico del Vulture viene considerato come il Barolo del Sud Italia. Vino di grande spessore in tutti i sensi. In particolare, questo top di gamma dell’azienda Santojanni nasce da uve maturate il altura, a 721 m. Il suo nome è originale e attira l’attenzione: “Centorami”. E non si riferisce al ceppo della vite che pure di diramazioni ne ha moltissime (se non si frenano con una adeguata potatura). Come spiega il produttore nel proprio sito interet: “Quercia secolare, albero padre di questo territorio, Centorami è il maestoso spettatore della storia che mantiene in vita il legame con il nostro passato. Tre fratelli ritrovano la cura e la passione per un vino intenso, robusto, longevo come il Centorami”. Centorami e cento anni (come minimo) verrebbe da dire. E aggiunge sempre il produttore: “Ottenuto dalle migliori uve DOP di Aglianico del Vulture del nostro vigneto affinate in legno per 13 mesi, Centorami è un vino intenso, robusto e longevo come l’arbusto monumentale di cui prende il nome”. Interessanti due particolari grafici di questa etichetta: il perimetro superiore ed inferiore della carta, seghettato, e una stampa in oro attorno al fusto rappresentato in etichetta (dove dei bambini giocano ad arrampicarsi). Interessante anche l’analisi del logo (quello stemma rosso che si trova in basso a sinistra: mostra la Torretta di San Zaccaria che fa parte della masseria di famiglia, accompagnata da un muro che rappresenta le case rurali tipiche di quella zona e dalla stilizzazione di un bosco, quello della pineta del Malandrino, che circonda le proprietà agricole dell’azienda. Nel complesso un packaging originale che attira l’attenzione con elementi costruttivi.

Parole d’Italia, la Francia s’è desta


Invitare, Viogner, Chapoutier.

L’inequivocabilmente francese Monsieur Michel Chapoutier, il noto produttore della Valle del Rodano (Condrieu), ha deciso di dare un nome in italiano a uno dei suoi vini di riferimento. E’ tutto molto classico, nella modalità francese di fare le etichette (che anche in Piemonte adottano spesso): uno stemma in alto, ben evidente (tre botti, un alfiere, un luna, un sole, le colline…), il nome del produttore in basso (che ripropone lo stemma già citato) con il motto “fac et spera”: un po’ come dire “aiutati che il ciel t’aiuta” in italiano. Ma a noi interessa prevalentemente il nome del vino, al centro, con un’ottima rilevanza (in termini di gradezza): “Invitare”. C’entra con la buona tavola e il buon vino: se io ti invito a cena, l’atto dell’invitare è necessario, allora devo premurarmi di poterti offrire qualcosa di speciale (altrimenti ognuno a casa propria). Stupisce l’utilizzo dell’italiano in un luogo così profondamente francese come la Valle del Rodano. Invitare in francese si dice “inviter” e quindi la parola è facilmente interpretabile in entrambi i paesi. Un guizzo di italianità, insomma. E noi ne siamo fieri.

Uno Champagne del Sud, Forte e Delicato (con Cappello)


Osmose Rosé, Champagne, Mademoiselle Marg’o.

Un’etichetta che invita all’assaggio. Spumeggiante, primaverile, leggiadra, certo anche molto femminile. Una figura di donna con un copricapo a falda larga. Fiori, vegetazione, foglie che volano. Sguardo e cappello molto sfiziosi. Molto francese, insomma. E anche per i nomi l’immagine del produttore è andata verso il classico, l’intrigante, il romantico: “Mademoiselle Marg’o” è il nome dell’azienda guidata da Aurelie e Sonia, “Osmose Rosé” è il nome di questa cuvée a base Chardonnay con un pizzico di Pinot Noir vinificato in nero. Tutto insomma ruota attorno a una immagine bucolica, piuttosto stereotipata, certo, ma resa molto bene dall’illustrazione in etichetta e dalla delicatezza dei suoi particolari. Compresa la goffratura (lo spessore, in rilievo) della carta che sullo sfondo ripropone il tema vegetale. Insomma molto candore (di colore) con un po’ di malizia che male non fa. Bollicine birichine che allietano la tavola anche con la loro presenza scenica. Il resto lo farà il calice (rigorosamente in cristallo di Boemia).

Il Gallo Nero Sorveglia il Terreno


Le Tre Vigne, Chianti Classico, Terreno.

In questo packaging molto “casereccio” (o quanto meno così vuole apparire) troviamo l’elemento “nome dell’azienda” molto importante, come presenza. Al punto da poter sembrare il nome del vino. “Terreno” è quindi l’azienda, mentre “Le Tre Vigne” è il nome del vino (un po’ nascosto anche dalla traccia rossa che in realtà sarebbe servita ad evidenziare). A seguire la denominazione “Chianti Classico” e il nome della titolare dell’azienda: “Sofia Ruhne”. Sopra al nome aziendale troviamo uno scudo, un marchio, uno stemma, che riporta tre foglie di vite, una stella, un grappolo d’uva e una “R” al centro (iniziale del cognome della famiglia proprietaria). L’etichetta dunque è semplice, di quelle fintamente compilate a mano, che fa molto artigianalità, attività umane dirette. L’azienda risale al 1988 e dal 2014 è diventata biologica. L’impressione è quella di un Chianti (inteso come zona) contadino che ha ricevuto la spinta di investimenti importanti. E che si colloca a metà tra una logica tradizionale e un marketing attuale. Il Gallo Nero, sul collarino della bottiglia, veglia sulla genuinità del tutto. 

Il Grillo in Spagna Non è un Vitigno


Hop Hop, Syrah e Garnacha, El Grillo Y la Luna.

Una piccola azienda spagnola, quasi famigliare, nella zona del Somontano de Barbastro, alle pendici dei Pirenei, si diverte a creare etichette bizzarre che hanno sempre per protagonista un grillo (stilizzato). In questo caso, un vino rosso a base Syrah e Garnacha, il nome effettivo sembrerebbe essere “Hop Hop”. A simboleggiare in modo onomatopeico (diciamo così) il saltellare del celebre e simpatico insetto parlante estivo. Si tratta di una bottiglia decisamente giocosa che lascia poco spazio a nozioni e sensazioni tecniche, enologiche, gustative. C’è solo la simpatia, che cattura, certo, ma che non trasmette valori relativi ad affidabilità e competenza dell’azienda produttrice. Fino a che punto è giustificabile sacrificare la credibilità in favore dell’ allegoria? Non lo sappiamo. La misura è diversa per ognuno. Certamente il packaging di questa bottiglia è stato studiato bene e realizzato con eleganza e chiarezza. Il resto lo saltiamo, un po’ come fa il grillo, senza troppi complimenti. N.B.: il Grillo in Italia, e in particolare in Sicilia, è un vitigno. Tant’è che in prima battuta abbiamo pensato che ci fosse proprio quello in questa bottiglia!

Madre Terra, Creatrice della Semplicità


Gea, Pinot Nero, Il vino e le rose.

L’azienda che ha dato alla luce questa etichetta si trova sulle colline tortonesi, tra Tortona e Varzi, ed esattamente a Momperone. Si chiama “il vino e le rose” nome poetico, romantico, evocativo. E nel proprio sito internet si definisce come “produzione di vino e ospitalità rurale”. Nella sede vi sono infatti anche camere per la permanenza notturna. Il packaging design di questa bottiglia di Pinot Nero è molto interessante, a partire dal nome del vino, “Gea”, la trasposizione italiana del greco “Gaia” cioè terra. La Madre Terra è raffigurata in etichetta nelle sembianze di una donna mediterranea, mora. Dalle sue vesti, o propaggini, scaturisce un panorama fatto di campi, colture, vegetazioni. Il mood della grafica è molto semplice, “casereccio”, la donna non è particolarmente bella o sensuale, le scritte che accompagnano l’elaborato illustrato sono molto “di stampa”, piuttosto disordinate, diciamo più funzionali che eleganti. Ma il tutto ha una propria dimensione, un proprio stile anche se molto spartano. In alto a destra il simbolo chimico della SO2 viene barrato per narrare lavorazioni dure e pure. 

Otto Decadi Infinite


Otto Decenni, Uvaggio di Rossi, Barbanera,

Non vi sono dubbi che il nome di questo vino, in qualche modo, tira in ballo il numero 8, cifra che può essere anche interpretata (ruotandola) come simbolo dell’infinito. Otto decenni, come recita l’etichetta in lettere, sono tanti, come dire 80 vendemmie. Le spiegazione aziendale per questo vino celebrativo infatti è questa: “Da oltre 80 anni “Barbanera” produce vini di livello mondiale. Otto Decenni (otto decadi) è un complesso Super Tuscan che celebra questa storia. Nel 1938, Altero e Maria Franceschini acquistarono terreni nella zona di Piazze, in Toscana, per produrre vino per la famiglia e gli amici. Il figlio, Luigi, ampliò l'attività, passandola a sua volta ai figli Marco e Paolo. Sotto la loro cura, la tenuta è diventata una delle più rinomate della Toscana. Prodotto da Sofia (figlia di Marco), quarta generazione, Otto Decenni unisce Sangiovese, Merlot, Petit Verdot e Cabernet. Lungamente invecchiato in botte, è ricco di note di frutti di bosco e spezie”. Molto importante, graficamente, cioè davvero molto presente, il grande numero 8 stampato con inchiostro dorato e in rilievo. Si fa notare con grazia nonostante le dimensioni un po’ invadenti. Firma del produttore in corsivo in basso a destra e alla base la dicitura “Toscana” (di legge) che male non fa, anzi, in una regione che conta moltissimo sull’enoturismo queste scelte sono importanti.

La Forza del Terrano, Anche in Etichetta


Terrano, Bajta Salez.

Questa fattoria, completa di vigne e allevamento di maiali si chiama proprio “Bajta”, con la “j”. Siamo al confine con la Slovenia, vicino a Trieste, dove le autonomie e i linguaggi si mescolano da decenni. Come si descrive la proprietà? “La Fattoria Carsica Bajta è una azienda agricola sita a Sgonico, sull’altipiano del Carso in provincia di Trieste. È un’azienda a conduzione familiare, che opera nel settore vitivinicolo, zootecnico ed agrituristico. La filosofia principale dell’azienda è quella di seguire tutta la filiera nell’ ottenimento dei propri prodotti, ricercando un punto d’incontro fra artigianalità e tecnologia. In particolare nel proprio allevamento, dove i suini nascono e crescono all’aperto, sul altipiano carsico. In vigna invece, le moderne tecniche di gestione vengono integrate con la tradizione territoriale”. Ma veniamo all’etichetta di questo vino rosso tipico della zona: si tratta del vitigno Terrano detto anche Teran o Refosk (apparentato con il più noto Refosco, in particolare con il Refosco dal Penduncolo Rosso). Il packaging non lascia dubbi: il nome del vitigno viene “speso” su tutta l’ampiezza disponibile della grafica, spezzando in due la parola, ma riproponendola completa, in piccolo, al centro. Una scelta d’effetto che riduce l’eleganza in favore della visibilità. A lato, poco visibile, con un inchiostro dorato, leggiamo il nome dell’azienda. Bello forte, il tutto, un po’ come il vino che veste, del resto. P.S.: peccato per quella strana “n” che sembra una “m”. Ma probabilmente viene ritenuta una originalità.

La RossaraTrentina, Ripescata e Ri-Amata


Legiare, Rossara, Zeni.

In questo rosso del Trentino il nome del vitigno prende il sopravvento rispetto a quello del vino: si chiama Rossara (mentre il vino, con un artificio letterale, si chiama Legiare, cioè come dire “le Giare” ma tutto di seguito). Ma torniamo al vitigno che merita un racconto/descrizione, ben delineato nel sito del produttore: “Rossera, "Geschlafene" (Goethe, 1876). La "Rossara" che qui si descrive e che è tipica del Trentino, abbiamo preferito definire quest'ultima come "Rossara trentina" per evitare ogni confusione con la "Rossara" del Veronese - "Molinara", che non ha nulla in comune, ne nell’ampelografia ne come risultato finale vinificato. (Principali vitigni da vino coltivati in Italia - Volume II, Ministero dell'Agricoltura e delle Foreste, 1962). Con questo progetto abbiamo valorizzato il nostro lavoro di vignaioli e custodi di varietà antiche e rare. Varietà coltivata da sempre nel Campo Rotaliano, negli ultimi quarat’anni è stata lentamente abbandona per lasciar posto al Teroldego. Il colore rosso chiaro della buccia a maturazione accomuna la Rossara trentina ad alcuni vitigni con la stessa origine semantica del nome (Rossana, Rossanino, Rossola, Rossetta, Rossolina ) ma geneticamente sono molto distanti. La Fondazione E. Mach nei primi anni 2000 ha esposto una ricerca di vitigni antichi e noi incuriositi , ci siamo imbattuti in un contadino proprietario di una parcella abbandonata del vitigno in questione. Era un vigneto dai sesti d’impianto ampi, con ceppi vecchi di più 100 anni a piede franco . Nel 2003 portammo in cantina 10 quintali di Rossara vinificandola come un Teroldego di pronta beva e ne abbiamo capito la potenzialità. Eseguita una selezione massale dal vigneto d’origine, siamo riusciti mettere a dimora delle nuove piante di Rossara, recuperando così ben 36 diversi soggetti, affinché questo vitigno, che fa parte della cultura trentina, non venga perso“. Tutto ciò detto e scritto, a buona firma di Roberto Zeni, titolare dell’azienda.

Un Antico Vitigno tra Iran e Armenia


Molana, Rasheh, Vahe Keushguerian.

Ebbene sì, anche in Iran si producono vini. Anzi, a dire il vero, è proprio lì che il vino nasce, migliaia di anni fa. Quindi il rispetto per gli “antichi” qui ci vuole tutto. Ma veniamo all’etichetta di questo vino rosso che viene prodotto in quantità limitata da un vitigno che cresce su suolo vulcanico nella regione di Sardasht. Il produttore innanzitutto ci dice che “Il nome dato a questo squisito vino ha un profondo significato, rendendo omaggio al leggendario poeta persiano Rumi, noto anche come Molana o "nostro maestro". Inoltre: “L'influenza di Rumi si estende ben oltre i confini nazionali e trascende le divisioni etniche. Le sue parole e la sua saggezza hanno toccato i cuori e le anime di individui in tutto il mondo, unendoli nella ricerca condivisa di pace interiore, armonia e un mondo libero da ostilità e animosità. Ottenuto dall'antico vitigno persiano Rasheh, da viti coltivate in vigneti ad alta quota (1.480 m) in Iran, contrabbandato e vinificato in Armenia... di produzione estremamente limitata (solo 1.200 casse prodotte) questa bottiglia rappresenta una rara occasione per immergersi nella storia del vino iraniano…”. Tecnicamente vediamo un massiccio utilizzo di inchiostro dorato, molti inserti in rilievo che compongono una vite artizzata, altri particolari di notevole finezza, in un complesso molto arcaico ma anche elegante e valorizzante. Un’etichetta vintage di sicuro impatto.

Il Resinato più Famoso di Grecia (e del Mondo)


Retsina of Attica, Savatiano, Kourtaki Wines.

Questo vino non si chiama “Retsina” per caso. Il suo nome (di categorica, come vedremo in seguito) è facilmente riconducibile alla parola “resina” in italiano. E’ un vino tradizionale, prodotto in tutta la Grecia preparando una miscela di uve Savatiano con l’aggiunta al mosto di una piccola percentuale di resina di pino marittimo, affinché il sapore balsamico venga assimilato durante la fermentazione. Fa parte così di una categoria di vini molto particolare: i resinati. La cantina che produce questo resinato, attualmente si chiama Greek Wine Cellars che sarebbe la precedente “Kourtaki Wines” fondata nel 1895 da Vassilis Kourtakis. In seguito il figlio Dimitris Kourtakis, dopo gli studi a Parigi, ha reso la cantina Kourtaki famosa nel mondo. In etichetta, molto spartana a proposito di Grecia Antica, vediamo il nome della cantina in alto e una descrizione al centro che vanta la tradizionalità di questo preparato (5000 anni!). Il cromatismo giallo limone (molto forte) aiuta sicuramente a rendere la bottiglia molto visibile, distinguibile e memorabile. Sul sapore del vino, invece, non mettiamo la mano sul fuoco (sacro).

Un Brodo Dolce, dalla Storia Antica


Il Giuggiolone, Giuggiola e Trebbiano, SiGi.

Per commentare il nome di questo vino “lasciamo la parola” al testo pubblicato nel sito internet del produttore, davvero esaustivo: “ “Andare in brodo di giuggiole” è un proverbio molto conosciuto in Italia. In riferimento al contenuto zuccherino delle giuggiole, frutto commestibile, il proverbio viene usato per indicare chi prova, per merito proprio o di altri, la dolcezza di un forte godimento. Il Giuggiolo Ziziphus zizyphus, noto anche come dattero cinese, è una pianta a foglie decidue della famiglia delle Rhamnaceae. Sovente viene utilizzato come pianta ornamentale. Si ritiene che il giuggiolo sia originario dell’Africa settentrionale e della Siria, e che sia stato successivamente esportato in Cina e in India, dove viene coltivato da oltre anni. I romani la importarono per primi in Italia, e la chiamarono “Zyzyphum”. Narra Omero Libro IX dell’Odissea che Ulisse e i suoi uomini, portati fuori rotta da una tempesta, approdarono all’isola dei Lotofagi secondo alcuni l’odierna Djerba, nel Nord dell’Africa. Alcuni dei suoi uomini, una volta sbarcati per esplorare l’isola, si lasciarono tentare dal frutto del loto, un frutto magico fece loro dimenticare mogli, famiglie e la nostalgia di casa. È probabile che il loto di cui parla Omero sia proprio lo Zizyphus lotus, un giuggiolo selvatico, e che l’incantesimo dei Lotofagi non fosse provocato da narcotici, ma soltanto dalla bevanda alcolica che si può preparare coi frutti del giuggiolo. proprio come quella che dopo tanti anni siamo riusciti a riportare in vita. Pare infine che per gli antichi Romani, il giuggiolo fosse il simbolo del silenzio e come tale adornasse i templi della dea Prudenza. In Centro Italia in molte case coloniche era coltivato adiacente alla casa nella zona più riparata ed esposta al sole e si riteneva che fosse una pianta portafortuna. Ma la giuggiola, oltre ad essere tanto stuzzicante per il palato, ha anche ottime proprietà medicinali. Contiene infatti saponine triterpeniche, piccole quantità di alcaloidi, glicosidi flavonoidici, ma soprattutto vitamina C. Infatti le giuggiole equivalgono alle arance. Le loro principali proprietà terapeutiche sono le seguenti epatoprotettive, ipocolesterolemiche, antipiretiche, antinfiammatorie, emolliente ed espettoranti. Nella medicina popolare è considerata uno dei quattro frutti “pettorali” con fichi, datteri e uvetta. Il Giuggiolone è ottenuto dalla macerazione del frutto della giuggiola con vino trebbiano in un procedimento molto particolare che dura quasi tre anni e che permette di estrarre il succo oleoso del frutto. Il Giuggiolone è una bevanda a base di vino di un colore oro intenso. Al naso regala tutto il profumo del frutto della giuggiola matura e il gusto conferma in pieno il naso mostrando anche di essere ben bilanciato”. Possiamo solo aggiungere che, sorprendentemente, “Bacco non lo sa”!

L’Agricoltura della Luce e del Carbonio


Bolle di Magenta, Garganega Frizzante, Nous.

Questa piccola cooperativa formata da una decina di soci, produce una serie di vini locali (siamo in Veneto, vicino a Soave) adottando i principi della coltivazione biodinamica. I vini in gamma vengono definiti dal produttore come: “i Vini di Luce” e il tipo di agricoltura “della Luce  e del Carbonio”. Di cosa si tratta? In breve ecco la descrizione che si trova nel sito internet: “I nostri vini utilizzano il Metodo Vini di Luce. L’uva ottenuta con questo Metodo è naturalmente ricca di antiossidanti che preservano il gusto e gli aromi grazie a vinificazioni naturali, con bassi dosaggi di solfiti in tutto il processo produttivo. Inoltre escludiamo l’utilizzo di lieviti che alterano i gusti e le caratteristiche aromatiche delle nostre uve, gli enzimi industriali, i chiarificanti e le filtrazioni invasive così da fornire al consumatore non solo un vino buono e piacevole, ma anche sano, vitale, biodisponibile e con tutto il gusto del territorio!”. Parliamo dell’etichetta: curioso il nome del vino, “Bolle di Magenta”, laddove si tratta proprio dell’omonima cittadina a sud di Milano, che ha dato il nome al colore stesso, il magenta appunto, una tonalità di rosa acceso, diciamo pure fucsia, che in questo caso fa da sfondo nel packaging. Il fiore rosa in etichetta, invece, non è ben definito: dobbiamo accontentarci della macchia di colore. In basso il nome del vitigno, in alto il nome del produttore e il logo. Si tratta di una stilizzazione di un pampino incastonato dentro a un acino d’uva. O almeno così sembra. In generale siamo di fronte a un buon lavoro di grafica, dotato di originalità.

Attraverso il Fiume e Oltre



Roncaglie, Barbaresco, Socré.

In primo luogo è bene spiegare il nome aziendale, Socré, che potrebbe sembrare un francesismo per “zuccherato”. Ma questo vino di sicuro zuccherato non è, anche perché si tratterebbe di una pratica enologica vietata dal disciplinare (i francesi, invece, a volte zuccherano). Inoltre stiamo parlando di un Barbaresco, vino rosso a base Nebbiolo, che sicuramente si manifesta in una modalità asciutta, elegante ma austera, lontano da amabilità tipicamente da vini bianchi alsaziani. Sucré, dicevamo. Il significato viene dall’antico proprietario dei terreni che faceva lo zoccolaio (in dialetto piemontese del luogo). Il nome del vino, invece, in basso nell’etichetta, è “Roncaglie”, riferito al nome storico della vigna dalla quale viene ottenuta l’uva per produrre questo vino. Ma l’attenzione primaria per questo packaging va a quel bollo blu che troviamo, molto presente, in alto: “Citra Flumen et Ultra” che in latino significa “Attraverso il fiume e oltre”. Inteso come il fiume Tanaro, che separa la zona eletta delle Langhe da una regione geologicamente diversa ma ugualmente molto adatta per coltivare uva (e nocciole). Nel complesso si tratta di una etichetta molto spartana, sia nella grafica che nei cromatismi. Caratterizzata unicamente dal cerchio con la massima latina. Certo che il solo nome “Barbaresco” è in grado di nobilitare il tutto.

Una Poetica Vulcanica Egoriferita


Soave, Garganega, Sandro De Bruno.

Un’etichetta semplice, dove trionfa il nome del proprietario nonché vignaiolo e produttore di questa azienda veneta, che opera alle pendici di una zona vulcanica ancora oggi sottovalutata. Breve racconto per inquadrare la situazione: “A circa 600 metri d'altitudine sul Monte Calvarina, dopo una serie di sinuosi tornanti, si aprono alla vista i nostri vigneti, estesi su 11 ettari di superfice in lunghi filari sviluppati su terreni vulcanici. Il Monte Calvarina è infatti uno dei maggiori edifici vulcanici subaerei del veronese, parte di un maestoso complesso vulcanico attivo che emergeva dall'antico mare della Tetide, circa 40 milioni di anni fa. Ci troviamo di fronte ad un panorama mozzafiato: la Pianura Padana si distende innanzi a noi accompagnata a sud dagli Appennini Emiliani e a nord dal Monte Baldo e dal Monte Pasubio”. Il racconto è denso ed emozionale, mentre l’etichetta, come si diceva all’inizio, è parca e lineare. Oltre al nome del produttore, troviamo unicamente le diciture di legge che riguardano il vitigno e la Doc. Mentre sullo sfondo, abbastanza sfumata, vediamo la sagoma di una punta di lancia di epoca paleontologica, probabilmente risultante dai ritrovamenti di antichissima età di quelle zone che riguardano anche fossili di vario genere e natura. Interessante il testo che sta nella parte bassa dell’etichetta e che riportiamo qui: “Ti porterò qui, dove le nubi sono le regine del cielo. Respirerai aria fresca e ti sentirai sovrano della pianura. Il tuo sguardo non avrà impedimenti fino all’infinito orizzonte. Il tuo animo poetico si colmerà di gioia allo spettacolo del vento che compie il suo percorso,sulle creste, laddove l’universo, pian piano, si tramuta in terra”. Autore anonimo, dedicato al Monte Calvarina. Etichetta quindi dagli elementi insoliti. Che certamente si distingue, ma attraverso un semplicità che diventa complessità nel momento in cui si decide di approfondire leggendola nella sua interezza.

Il Lampo dell’Assoluto nelle Sfumature di un Prosecco Particolare


Ramatodorè, Fondante Integrale (Spumante), Cima del Pomer.

La definizione che sta alla base di questo vino e del metodo con il quale viene prodotto non è nota ai più. Si tratta di una piccola produzione che trae origine da antiche modalità. Ma veniamo prima alla spiegazione di questo termine (fornita dall’azienda nell’ottimo e descrittivo sito internet): “Venivano chiamati fondanti, non tanto nel senso dei moderni ‘col fondo’ o ‘colfondo’ ma poichè allora nelle nostre zone, questo metodo di produzione familiare era ‘fondativo’, originario. Era l’unico procedimento possibile per ottenere il vino ‘mosso’ secondo i tempi della natura: imbottigliato ancora fresco di spremitura, con il freddo invernale riposava per poi risvegliarsi con i tepori primaverili e riprendere a fermentare. Ancora oggi realizziamo così il nostro spumante fondante che definiamo integrale perchè non togliamo il suo naturale sedimento costituito da soli lieviti. E sono proprio i lieviti a restituire aromi e sapori autentici di questo territorio, a rendere i nostri vini vivi e mutevoli, ma anche invitanti e molto appaganti, freschi e, caratteristica fondamentale, cosi digeribili da non presentare fastidiose conseguenze”. Si tratta pur sempre di Prosecco, certo, e di Glera (il vitigno) ma con un’attenzione produttiva (e narrativa) particolari e davvero unici nel panorama vinicolo di quelle zone. In questa etichetta, molto classica, elegante ed equilibrata, troviamo i 4 famosi cavalli di San Marco, anche in questo caso proponiamo la spiegazione del produttore: “Il colore intenso di questo spumante unico, ci ricorda la finitura preziosa dei cavalli della Basilica di San Marco, un’opera straordinaria contesa molte volte. Ai quattro destrieri indomiti, simbolo di forza e di indipendenza della venezianità, è dedicato il nostro spumante Ramatodorè, un vino dal colore buccia di cipolla che riporta nel calice il profumo dei suoi aromi di bacca rossa”. E infine cosa dire di quella frase che troviamo in etichetta: “Infondata, indiscutibile e soggiogante, come una  formula matematica, la bellezza è il lampo dell’assoluto nella miseria del tempo”. Favoloso, applausi.