IL NOME DEL VINO
L’etichetta è la PRIMA e più IMMEDIATA comunicazione del VINO.
Le Calende Piemontesi al Sapor di Nebbiolo
Il Massaro, la Massaia e la Masseria
Il Cantone Pugliese dell’Aleatico
Un Packaging Conciato per le Feste
Creadele, Packaging Personalizzato.
Si sa che in dicembre, ogni Santo Dicembre, la ricerca di regali originali diventa frenetica. Con l’obiettivo di regalare qualcosa di unico e non solo come gesto simbolico. Ed ecco che un’azienda formata da tre giovani donne, Adele, Giulia e Valentina, propone confezioni personalizzate in legno (anche pregiato, come il larice). L’azienda artigianale si trova a Selvino, in provincia di Bergamo, paese immerso nelle montagne e circondato da boschi. L’idea è quella, tra le altre proposte della bottega artigianale, di vestire le bottiglie di vino con un ulteriore “abito”, oltre all’etichetta d’ordinanza, che impreziosisce il regalo potendo scrivere nomi e dediche. Semplice ed efficace. Le cassettine portabottiglia possono avere la chiusura a gancio o con un coperchio scorrevole. Nel caso mostrato nella foto assistiamo a una divertente dicotomia: dalle montagne al mare, cassetta di legno per un vino siciliano, un Grecanico che si chiama Roccarosa. In etichetta una bella raffigurazione di un paese in riva al mare con alle spalle un massiccio roccioso. Packaging delle feste per tavole festose. E che sia di buon auspicio per tutti i lieti calici!
Bottiglia Quadrata, Lambrusco a Tutto Tondo
Brutto un Nome, Bello l’Altro (Vitigno)
Altrauva, Ortrugo, Lusenti.
Il nome del vitigno di cui è composto al 100% questo vino è proprio brutto. E’ una parola che si potrebbe definire cacofonica: “Ortrugo”. E non è nemmeno un vitigno noto e particolarmente virtuoso. Viene coltivato unicamente sulle colline piacentine. In questo caso a Ziano Piacentino dove l’azienda Lusenti porta avanti una tradizione di famiglia (biologica, su 20 ettari), oggi grazie a Lodovica Lusenti e a sua figlia Martina. Il nome del vino invece è gradevole e originale “Altrauva”. A segnare il passo di questo vitigno che risulta così inconsueto da essere strano: in dialetto locale “ortr ug” significa proprio “altra uva” (giacchè una volta veniva utilizzata solo come blend aggiuntivo con la Malvasia di Candia, assoluta protagonista di quelle colline). Oggi l’altra uva in questione consente di produrre un vino bianco frizzante, diventato tipico di quelle zone, adatto anche ai salumi. Cosa aggiungere su questa etichetta? In alto vediamo il logo dell’azienda, una coppia di colombi nella piccionaia; tutto attorno una serie di decorazioni che sembrano palle dell’albero di Natale (o chicchi di caffé) di colore giallo e verdognolo (sì, ok, sono gli acini d’uva). Nota creativa: il nome del vino viene scritto con le lettere disassate a formare dislivelli tipografici che apportano un aspetto originale.
PiWi, PiWi, Hurrà!
Novello, Blend di Piwi, La Cantina Pizzolato.
Questa fantasiosa etichetta rivela alcune interessanti peculiarità di una collezione di vini naturali (bio, vegani, PiWi e quant’altro) ad opera di Settimo Pizzolato, fondatore dell’omonima cantina. A dire il vero l’esatta dizione, cioè il nome dell’azienda, è “La Cantina Pizzolato”. Strana composizione che “allunga il brodo”, ma forse anche questo serve a farsi notare. Le etichette di questa serie di vini PiWi (varietà di vitigni “resistenti”, cioè tipologie che non vengono contaminate da funghi e altre malattie della vite) hanno inoltre una caratteristica molto particolare: sono apribili come la pagina di un libro e leggibili. Vengono definite come “etichette parlanti”. In pratica in alto a sinistra, dove si vede una libellula, è possibile aprire l’etichetta tirando il lembo corrispondente all’ala sinistra dell’ecologico insetto. Operando tale gesto, nel retro di questo packaging decomponibile si leggono le caratteristiche del vino, e in particolare dei vitigni PiWi. Quello che vediamo in etichetta sono alcune parole concentrate al centro di un cerchio nero: Pizzolato, Piwi, Novello, Vino Biologico, Senza Solfiti Aggiunti. Questo bollo informativo giace su un fondo decorato con flora artistica di colore rosso acceso. Sulla sinistra, in alto, una libellula azzurra. Lo stile è tra il moderno e il “digitalizzato”, l’effetto cromatico molto attenzionale. In alto a destra un piccolo logo con degli archi stilizzati di un edificio (probabilmente la sede dell’azienda). Progetto ambizioso e coraggioso. L’etichetta pure. P.S.: i due vitigni che compongono questo vino si chiamano Merlot Khorus e Cabernet Cortis.
Un Traminer Otticamente Perfetto
Un Assaggio di Qualità nella Piana Rotaliana
Clesurae, Teroldego, Cantina Rotaliana.
Questa etichetta veste il vino di punta di una cantina sociale trentina, frutto della fusione, avvenuta nel 1968, tra la Cantina Cooperativa di Mezzolombardo e l’Enologica Rotaliana. Il nome attuale dell’azienda riassume infatti queste due realtà, anche semanticamente: Cantina Rotaliana. Si tratta di una classica cantina “di montagna” (ma che opera in pianura) dove molti piccoli e grandi viticoltori conferiscono le uve (attualmente i soci conferitori sono quasi 300). Il vino che presentiamo in questo breve articolo si chiama “Clesurae”, cioè “serratura” in latino, ma anche “chiusura” con riferimento ai “clos” francesi, piccoli appezzamenti di vigna spesso racchiusi entro il perimetro di mura fatte di sassi e costruite a secco. Sta a significare che le uve che compongono questo vino rosso (vitigno 100% Teroldego, il Re di quella zona chiamata Piana Rotaliana) sono selezionate. Provengono infatti da un vigneto di 50 anni nel quale le rese vengono limitate a 90 quintali per ettaro. Insomma, un vino di tutto rispetto, che rimane 24 mesi in barrique per acquisire maturità e possanza. In etichetta scorgiamo caratteri arcaici, e anche una curiosa illustrazione con due uomini vendemmianti, uno dei quali sta scaricando l’uva da una cesta e l’altro assaggia un acino preso da un grappolo. Ancora oggi infatti, nonostante metodi di rilevazione molto specifici e tecnici, la maturità e la qualità delle uve viene spesso accertata… al gusto. I toni cromatici molto rossi, facilitano una “presa di attenzione” sullo scaffale. Un certa originalità dello stile assolverà anch’essa ai propri compiti.
A Strevi, Caricano l’Asino con il Carialoso
Carialoso, Caricalasino, Marenco.
I nomi dei vini di questa azienda piemontese, che opera nei pressi di Strevi, vicino ad Acqui Terme, sono abbastanza sorprendenti. Nel senso che molti di essi rischiano di “suonare male”. Oltre a questo “Carialoso” (del nome antico della vigna di provenienza delle uve), nella gamma troviamo “Scrapona” (Moscato d’Asti), Bassina (Barbera d’Asti), Ma Mù (Moscato Secco), Valtignosa (Cortese). Infatti per i nomi, la fonetica si mescola con la semantica, generando quella che è la percezione “a valle”, cioè nella mente dell’attuale o del potenziale cliente consumatore. In particolare in una etichetta come questa, molto povera di elementi (ma questo può essere un pregio), cioè incisiva con i suoi contenuti, il nome del vino emerge moltissimo, diventa protagonista, insieme a quello del produttore. Il nome Marenco, in alto, sovrastato da due anatre in volo, prende il sopravvento grazie al carattere di scrittura di forte struttura, ma anche il nome del vino, in azzurro, sia pure in corsivo, acquisisce importanza grazie alla sua centralità. Bella la carta dell’etichetta, di spessore al tatto, che fornisce eleganza e sobrietà al tempo stesso. Certo che “Carialoso” può davvero riportare qualcosa di sgradevole come ad esempio la carie. Chissà se ci hanno pensato, prima di decidere di chiamare così questo bianco del Monferrato… P.S.: il vitigno di questo vino ha pure lui un nome davvero particolare, “Caricalasino”. E non è uno scherzo: si chiama proprio così. Sembra, in origine perché si tratta di uve particolarmente produttive che generavano grossi carichi per quantità e volume (oggi le rese sono ridotte per mano e per scelta del viticoltore).
Mai Fidarsi della Volpe, ma del Galluccio sì
Un Rosso che Attira l’Attenzione
Baciamisubito, Barbera del Monferrato, Az. Agr. La Scamuzza.
L’originale nome di questo vino potrebbe parafrasare il celebre film del 1964, del regista Billy Wilder (titolo originale “Kiss me, stupid”), Baciami Stupido, con due protagonisti d’eccezione come Kim Novak e Dean Martin. La storia di questo nome, invece, attiene alla considerazione che questo vino è come un bacio, da cogliere subito, senza esitazioni, così come i piaceri veri, enogastronomici, della buona tavola. Nasce con queste considerazioni un’etichetta sicuramente di grande impatto, non solo per il nome del vino, ma anche e soprattutto per le labbra rosse che emergono da una foto in bianco e nero. Viso di donna, rappresentato da naso e bocca, elementi determinanti per definire la bellezza di un volto, insieme agli occhi, naturalmente, in questo caso abilmente celati. Infatti gli stimoli visivi della bellezza e dell’attrazione devono concedere e privare, in un gioco delle percezioni che si fa memoria. E’ questo il compito di una etichetta delegata a colpire. Ed è per questo che il packaging di questa Barbera del Monferrato colpisce anche a distanza, sullo scaffale e ancora di più su una tavola imbandita e candida. La produzione di questo vino è davvero minima, poche migliaia di bottiglie ogni anno, da parte di un produttore (Laura Zavattaro, a Vignale Monferrato, associata storica delle Donne del Vino) che punta alla qualità e ad una determinazione delle vigne, cioè della provenienza delle uve, da “grand cru”, come si usa dire nella vicina Francia. Un rosso che si fa notare, in tutti i sensi.
Un Rebus in Diebus in Terra Latina
La Lucertola Ribelle di un Domaine del Rodano
Prima, Rosé, Domaine de l’Anglore.
Questo vino estremamente naturale, no filtrazioni, macerazione carbonica a grappolo intero, si presenta con un rosato intenso… anche in etichetta. Anzi, nel packaging i particolari di stampa sono proprio rossi. Rossa è la lucertola che alberga al centro dell’etichetta e che sicuramente sta a rappresentare la biodiversità, insomma la presenza naturale di tutti gli elementi spontanei della fauna e della flora in vigna. Rosso è il nome del vino, curiosamente in italiano, “Prima”, forse ad esprimere il primato della natura sul lavoro dell’uomo. Rosso è il nome dell’azienda, “l’Anglore”, e le scritte di legge alla base dell’elaborato. Bella la carta leggermente goffrata, cioè ruvida la tatto, a sancire una certa manualità che ancora oggi contraddistingue il lavoro di questa cantina: raccolta a mano, lavorazioni artigianali dall’inizio alla fine. E il vino? Ruvido anch’esso, non potrebbe essere diverso. Appartiene a quella categoria di prodotti enologici che vuole essere “anomalo” per definizione, ribelle, ancestrale, scapestrato, anticonformista, mettetela come volete, ma state attenti alla volatile (che non è un uccello, ma il modo in cui i sommelier definiscono quello spunto acetico che a molti dà proprio fastidio). Pace e bere.
Un Folle Unicorno Fattore Primario di Felicità
Un Mora Creativa e Sognante per un Salento Rilevante
Mora Mora, Malvasia Nera, Paolo Leo.
Le estrose etichette di Paolo Leo si riconoscono subito sullo scaffale. E generano curiosità a tavola. Questo vino che si chiama “Mora Mora”, in primo luogo è originale per il vitigno che lo compone, una Malvasia Nera del Salento che non si trova spesso tra le proposte enologiche d’Italia. Originale anche l’etichetta con una somma di particolari che la rendono unica e distintiva. Quello che l’occhio coglie in prima battuta è il viso di una donna. La forma dell’etichetta segue il profilo della testa chiomata generando una insolita, quindi sinuosa, struttura. Veniamo ai particolari “artistici”. La donna (mora di capelli) ha le gote dorate, evidenziate da due cerchi geometrici. C’è anche del viola tra i suoi capelli. Colore che ritroviamo nel nome del vino, dove la prima “Mora” è in viola e la secondo “Mora” in oro. Labbra molto rosse e all’orecchio destro una mora stilizzata. In basso, dopo le scritte didascaliche di legge, vediamo quello che potrebbe sembrare un QR Code, mentre si tratta del logo/stemma del produttore, seguito da nome e cognome dello stesso. Nel complesso si tratta di un packaging che possiamo definire molto creativo. I buoni auspici per un successo di vendita ci sono tutti.
Un Vino Molto Vivo con un Nome Mortifero
Morta Maio, Niellucciu, Antoine Arena.
Certo che in Italia il nome di questo vino potrebbe essere male interpretato. O come minimo considerato come porta sfortuna. Ma tant’è che il naming in questione deriva da questioni topografiche e storiche, facendo riferimento alla vigna dove cresce la vite che dà vita a questo vino rosso della Corsica. Siamo nella Aoc “Patrimonio”, una della più celebrate e preziose dell’isola francese autonomista che conserva ancora oggi molta italianità (anche nei nomi o cognomi dei produttori, che in questo caso è Arena). A parte il nome, siamo di fronte a quale tipologia di etichetta? Molto classica. Con caratteri di scrittura corsivi, graziati, eleganti e “romantici”. In alto due “A” rappresentano le iniziali del produttore. Nome e cognome che viene riportato in chiaro e molto in grande al centro del packaging. Poi la dicitura dell’Appellation (il francese per dire Denominazione). Per il resto scritte centrate, ordine ed eleganza, con il vezzo di una fustella (la forma della carta dell’etichetta) smussata diagonalmente ai quattro angoli estremi. Il risultato è una percezione di qualità, di storicità, di serietà, di tradizione, che è sicuramente quello che vuole trasmettere l’azienda. Produzioni limitate, vino “naturale”, prestigio (a un costo abbastanza elevato) e notorietà tra gli intenditori.
Un Passito d’Altri Tempi, Ancora Oggi
Chiarello di Cirella, Adduraca (Duròc).
Ci sono vini di un tempo (che a quel tempo sono rimasti) che quasi non avrebbero bisogno di etichette. Se non quelle antiche, che il marketing non lo hanno mai conosciuto e considerato. Come questa, che veste un passito molto particolare e raro, che viene dalla Calabria. Ma vediamone brevemente la storia (dal sito “il Calice di Ebe”): “Un vino dolce, profumatissimo e prezioso amato dalle corti rinascimentali e dal Papa Paolo III Farnese: ripercorriamo la storia e la fortuna dell’antico nettare di Cirella, il Chiarello. I Romani la chiamavano Cerillae ma la sua è una storia più antica: nata in epoca magno-greca, Cirella fu una colonia focese fondata tra il VII e il VI secolo a.C. Plinio il Vecchio la identificò come Portus Parthenius Phocensium, ovvero il Porto Partenio dei Focesi perché all’epoca l’abitato si estendeva sulla costa intorno al porto, luogo in cui oggi si trova grosso modo l’attuale Cirella. Di fronte si trova l’Isola di Cirella, una delle poche della Calabria assieme alla vicina Isola di Dino a Praia a Mare (Cs)”. E ancora qualche informazione sul vitigno che compone questo vino: “Viene descritto come un vino giallo dorato e profumatissimo, dolce e molto prezioso; si ricavava quasi sicuramente dalle uve di adduràca che in dialetto locale significa ‘profumata’. L’adduràca, in italiano duraca, è un vitigno autoctono assai antico sul quale sono stati effettuati recenti studi genetici per determinarne l’origine”. Nient’altro da aggiungere se non che questa etichetta sta bene così. Si porta dietro tutta la storia di questa piccola e preziosa eccellenza d’Italia.
Un Rosso tra i Bianchi, in Terre di Tufo
La Candia d’Italia (no, non Quella Greca della Malvasia)
Un Flusso di Parole in un Mare di Colore
Impavido, Primitivo, Tenuta Coppadoro.
Questa azienda di San Severo in provincia di Foggia decide di allestire un’etichetta un po’ diversa dal solito. Innanzitutto il colore, profondamente azzurro, che per un vino rosso è raro a vedersi. E poi il fatto che nel fronte del packaging abbiamo la descrizione organolettica del vino. In particolare questo testo è proprio la parte preminente del design. Certo, in alto, come grandezza, leggiamo in primis il nome del vino, Impavido, un nome ridondante, originale, da leader. Assolutamente memorabile. A seguire, fino alla base dello spazio a disposizione, troviamo un testo che descrive il vino, redatto con molti caratteri (di scrittura) diversi. E forse qui sta il minus di questa operazione creativa: la leggibilità. Per il resto può risultare anche piacevole poter leggere, finalmente sul fronte, quello che di solito viene relegato, in piccolo, sul retro. Un vezzo cromatico viene rappresentato da quel “rosso”, scritto appunto in rosso, che emerge nel mare colorato che fa da sfondo e dalle altre parole che compongono il “sonetto”. Alla base troviamo il nome/logo del produttore, Tenuta Coppadoro, che fa comunque capo alle Tenute Sannella (Coppadoro è di fatto il nome della contrada dove vengono coltivate le viti). Il vino è un Primitivo al 100%.
Mediamente Gradevole ma con Una Etichetta Strong
Un Vino Sfidante, cioè Scavezzacollo
Il Guardiano di Salina, tra Sole, Vento e Mare
Terra, Mani, Mare e Tradizione a Cirò Marina
Mani Contadine, Rosato, Tenuta del Conte.
Siamo in Calabria, nel lato che si affaccia sul Mar Ionio. Esattamente a Cirò Marina, dove la tradizione della viticoltura è stata portata dagli Antichi Greci. Questo raccontano gli anziani e le testimonianze storico-morfologiche del territorio. Questo vino viene prodotto dalla famiglia Parrilla, 15 ettari oggi gestiti dai figli del fondatore Francesco. Una volta solo conferitori, oggi fieri produttori. Agricoltura biologica, equilibrio ambientale, per una serie di etichette che parlano di genuinità. Soprattutto questa, che veste un rosato da vitigno Gaglioppo 100%, e che si distingue per un nome del vino molto diretto e significativo: “Mani Contadine”. Pochi dubbi sul significato, confermato da una illustrazione che mostra due mani da viticoltore nell’atto di frantumare una piccola zolla di terra. La carta sulla quale è stampata l’etichtta è di quelle “preziose”, goffrata, in rilievo al tatto. Ma tutto il resto parla di una ruralità ancora intatta. E di semplicità, anche per il packaging: pochi elementi, molto evidenti. Un messaggio diretto e facile da interpretare. Alla base la dicitura “rosato” e il nome/logo dell’azienda: Tenuta del Conte.