Il Bifolco, i Buoi e le Stelle (del Garda)


Bifolco, Blend di Rossi, Saottini.

In questo mondo variegato del vino italico si susseguono nomi stereotipati, allegorici, strani, insoliti, sfrontati, a volte anche adeguati, per fortuna. Qui ne abbiamo uno che è il frutto di una scelta davvero particolare: chiamare un vino “Bifolco”. Si tratta di una parola desueta che quasi nessuno pronuncia più. Ma sulla Treccani come su tutti i principali dizionari si trova ancora: “…singolare maschile (dal latino bubŭlcus, bufulcus). 1. Guardiano di buoi; chi lavora il terreno coi buoi. 2. Soggetto ignorante, zoticone, screanzato. 3. In astronomia, Bifolco, è altro nome della costellazione di Boote”. Prendiamo per buona la prima: guardiano/lavoratore con i buoi. Ma nella comprensione generale purtroppo emerge sempre in prima battuta il secondo significato qui esposto. E quindi? Potrebbe di conseguenza derivarne una comprensione non limpidissima, poco vantaggiosa, diciamo così. E la grafica in etichetta? Vediamo una mano nell’atto di afferrare qualcosa, mano realizzata con un fondo cielo stellato. Enigmatica quanto basta e poco legata al nome del vino. Se non vogliamo intendere che il contadino che lavora la terra lo fa sotto un cielo stellato (ma la terra si lavora di giorno, non di notte). Il logo dell’azienda è una rosa dei venti. Il pay-off (lo apprendiamo dal sito) è “gusto e tradizione dal 1917”. Per la cronaca ci troviamo sul Garda e i vitigni che compongono questo vino rosso sono il Rebo, il Merlot e il Cabernet.

La Mano di Bruno Bozzetto per il Manzoni della Bergamasca.

 


Manzù, Incrocio Manzoni, Cà Olta.

Questa etichetta, relativa a una piccola produzione, ha una grande paternità per quanto riguarda la grafica: l’illustre Bruno Bozzetto, disegnatore, sceneggiatore, regista di innumerevoli e divertenti fumetti. L’omino che troviamo in questo packaging, con un bicchiere in mano, ai bordi di una scoscesa collina, lo ha disegnato proprio lui. Si staglia quindi per cromatismo ma anche per originalità questa etichetta che veste un Incrocio Manzoni (vitigno) da cui il nome del vino: Manzù (siamo nella bergamasca, il dialetto è quello, sincopato, con le finali accentate). Le vigne di questo vino bianco albergano esattamente a Scanzorosciate, comune noto più che altro per il Moscato di Scanzo, la più piccola DOCG italiana, che dà luogo a un passito rosso di grande complessità aromatica. Il nome attuale del luogo, Scanzorosciate, si compone di due paesi precedentemente separati, Scanzo e Rosciate. Curiosa e peculiare l’origine di Rosciate: dal greco “ros” per grappolo e dal celtico “ate” per villaggio. Onomatopeico il nome della giovane azienda vinicola (che logicamente produce anche il prezioso Moscato di Scanzo): Cà Olta. Che in dialetto bergamasco significa “casa alta”, cioè casale posto sulla sommità della collina. Sommità che viene ben evidenziata da un colore verde brillante in questa coinvolgente etichetta (e il cerchio si chiude). 

Stelle di Mare e di Monte nelle Tempe Cilentane


Asterìas, Fiano, Tempa di Zoe.

Abbiamo qualche definizione da chiarire. Innanzitutto il nome del vino, poi il vitigno (Fiano della Costa Cilentana) e infine il nome del produttore. Iniziamo con le parole che troviamo nel sito internet dell’azienda, che riguardano questa etichetta: “Asterìas significa stella marina in lingua greca. Si tratta del primo bianco dell’azienda ed è ottenuto da uve Fiano. Il simbolo della stella è una guida ma anche un riferimento: esso prende ispirazione dalla presenza del Monte Stella, un massiccio che sorge nel Parco Nazionale del Cilento, raggiungendo i 1131 metri sul mare, che svetta sul nostro vigneto, che è incastonato tra la montagna ed il mar Tirreno”. Quindi il nome del vino si riferisce a un animale marino ma si ispira anche a un monte. Dualità tra terra e mare che potrebbe confondere o forse confortare, vista la grande bellezza e varietà geomorfologica di un Cilento ancora oggi poco considerato come terra dei vini e luogo di amenità. E quel numero 6 in grande evidenza al centro del packaging? Ebbene, nonostante questo sia, come dichiarato in precedenza, il primo vino bianco dell’azienda, si tratta, in ordine di “uscita” del sesto vino nato in questa cantina. E il nome dell’azienda (davvero insolito)? Ecco la spiegazione: “Tempa di Zoè non è solo riferito a un luogo fisico ma è soprattutto una dichiarazione di intenti. Le “tempe”, dolci colline che si rincorrono al mare, caratterizzano da nord a sud il Cilento. Zoè, è la parola greca che indica l’essenza della vita; il principio universale comune al mondo animale, vegetale e minerale”.

Rosa Come la Lingua d’Oca


Gris Blanc, Grenache (di 2 tipi), Gérard Bertrand.

Nonostante questo nome del vino, non si tratta di Pinot Blanc o di Pinot Gris. La spiegazione è semplice: stiamo parlando del vitigno Grenache (normalmente conosciuto come rosso, Garnacha in Spagna, Cannonau in Italia) nelle versioni Bianco e Grigio (laddove per Grigio si intende quella colorazione degli acini violacea, tipica anche del Gewürztraminer). Ed ecco che il grosso (in termini di volumi) produttore Bertrand con sede e vigneti nella Linguadoca, ha chiamato questo suo celebre rosé “Gris Blanc”. Un rosé che fa concorrenza a quelli più noti della Provenza e ancora più a destra (verso est) della Costa Azzurra. Qui siamo quasi verso il confine con la Spagna, con la Catalogna, per l’esattezza, in Linguadoca, curiosissimo nome di regione francese che nulla c’entra col bianco pennuto starnazzante. Linguadoca infatti deriva “…dalla lingua che vi si parlava, l'occitano o lingua d'oc, in contrapposizione al nord della Francia, detto anche terra della lingua d'oïl, laddove òc e oïl erano le rispettive forme per la parola ’sì’ (Wikipedia)”. Ma torniamo a questa etichetta, semplice, diretta: una sfera in alto (che contiene il nome del vino, cromaticamente definito in due parti) e un rettangolo in basso con una scritta che descrive il vino come un prodotto “puro e cristallino del Sud della Francia”. Il resto lo fa la bottiglia con il suo vetro trasparente e con il colore molto particolare del suo contenuto: né bianco, né rosa e nemmeno grigio (ci mancherebbe!), bensì “buccia di cipolla”, come direbbe qualcuno.

Il Filo del Discorso


Filo, Negroamaro, Cantine Menhir.

Etichetta nera, elegante, con particolari che sorprendono. Al centro labbra femminili, rosse, carnose, vibranti (anche graficamente: il profilo esterno delle labbra “riverbera” in una serie di tratti neri tracciati con inchiostro lucido). Secondo elemento attenzionale: il nome del vino, “Filo”, viene proposto con la grandezza variabile delle lettere che lo compongono. A crescere, dalla “f” iniziale alla “o” finale. Un “filotto” che nella sua scompensatezza (e anche insensatezza) certamente attira l’attenzione in quanto insolito ed originale. I contorni sono in oro, con effetto eleganza soprattutto su nero. Al centro la scritta “Riserva” che nobilita e informa. In basso una frase ad effetto, ben ideata: “…per raccontare ciò che siamo stati, ciò che siamo e ciò che continueremo ad essere”. Bene, c’è un concetto e viene portato avanti con evidenza. Il vino è da vitigno Negroamaro (siamo in Puglia, certamente, zona Salaento). Un vitigno conosciuto ai più, soprattutto in tempi recenti durante i quali questa tipologia si è diffusa (commercialmente, intendiamo) anche nel nord Italia. La Doc invece e tra le meno conosciute: “Terra d’Otranto”, dichiarando così, utilmente, l’origine delle vigne. In particolare questo produttore opera a Minervino di Lecce. I vini pugliesi si fanno largo, sul filo di gradazioni importanti, cercando di non perdere in freschezza.

Una Barbetta Tutta Naturale


Assenza, Barbetta (Barbera del Sannio), Nicola Venditti.

Il nome di questo vino è una dichiarazione di intenti. E al tempo stesso uno svolgimento del tema, con impegno e serietà: si tratta infatti dell’Assenza di solfiti e anche di lieviti selezionati (quindi si utilizzano solo lieviti autoctoni, presenti sulle bucce e nell’ambiente naturale) e di enzimi vari. Il produttore, della zona del beneventano, ha voluto così ribadire il proprio impegno sulla genuinità. Quindi non “Essenza” come molti vini si appellano (fin troppi), bensì “Assenza”, da leggersi come un primato non come negatività (certo, il rischio c’è). In basso, in questa etichetta dal carattere contemporaneo, diciamo “moderno”, e dalle forme futuriste, troviamo il nome del vitigno (nome locale), la Barbetta. Si potrebbe credere che il nome del vino possa essere questo, ma in verità è quello in alto. Al centro troviamo il nome e il logo dell’azienda, Venditti e una piccola scritta aggiuntiva: “Antica Masseria dal 1595”. Rosso Ferrari per il packaging di questo rosso, le forme stilizzate, crediamo, di una vite, sia nella texture dell’etichetta sia nel logo in piccolo. La linea comprende anche una Falanghina dei toni cromatici in arancione (sullo sfondo nella fotografia). Grafica originale, nome fattuale, vino… eccezionale (dicono gli esperti).

La Solitudine dei Nomi Importanti


I Am Not a Big Wine, Riesling e Chardonnay, Nestarec.

L’esercizio minimalista del noto produttore Milan Nestarec non convince fino in fondo. In comunicazione si potrebbe definire come “negative approach” questo nome che inneggia (con una certa arroganza grafica, poi vediamo) a una finta modestia. Questo vino bianco dalla Cechia vuole essere il simbolo di un minimalismo sano e genuino (e questo lo comprendiamo benissimo), della gioia di stare a tavola con gli amici, in semplicità, con tante cose buone sulla tavola. Ed ecco che il minimalismo si rispecchia in una etichetta molto “vuota” (ma anche pulita, certo) dove vengono enfatizzati il nome del produttore (in corsivo) e l’originale nome del vino, in neretto molto vistoso alla base del packaging. Sicuramente si tratta di una scelta grafica originale, con la funzione di farsi ben notare sullo scaffale, ad opera di una visione focalizzata su due elementi soltanto. La carta dell’etichetta è invece preziosa, rugosa, tattile, non banale. Ci sono aziende che possono permettersi questa leadership comunicativa e altre meno. Sicuramente la fama di questo ottimo produttore gli consente di divagare in modo estroso nella produzione di etichette fuori dal comune. Così come vuole essere fuori dagli schemi tutta la filosofia imprenditoriale e organizzativa. 

Una Faccia Strana Tra il Serio e il Bislacco


Bislacco, Colline Pescaresi Igt, Platinum Italia.


Davvero strano il nome di questo vino, cioè… “Bislacco”. Parola desueta che vale la pensa di sondare con l’aiuto di Treccani: “Aggettivo (forse dal dialetto veneto bislaco, soprannome che si dava ai Veneti del Friuli e agli Slavi dell’Istria, dallo sloveno bezjak ‘sciocco’). Stravagante, strambo; riferito sia alla persona sia alle sue manifestazioni”. Non un nome qualunque, quindi. La sua rarità nel parlato italiano alla fine si fa notare. E forse quella rappresentazione artistica al centro dell’etichetta conferma il concetto: un faccione tra il futurista e il contemporaneo strapassato (e strapazzato). L’azienda si esprime nei territori che comprendono le colline teramane (a Corropoli), anche con vini e vitigni di zone limitrofe, e nasce ad opera di tre amiche nel recente 2012 con 35 ettari agli attivi. Interessante la descrizione delle velleità aziendali (in fatto di comunicazione) che si può reperire in rete: “Creiamo personalmente il design per la nostra collezione di vini. In ogni etichetta è possibile riscontrare i tratti distintivi del gusto femminile, la mano e lo stile delle tre donne di Platinum e la loro passata esperienza nel settore tessile italiano. Ognuna di esse presenta grafiche, decorazioni e nobilitazioni che ricordano merletti, gioielli, tradizione storica, grazie a speciali effetti come punzonature, lamine metalliche in oro lucido, argento, effetti di contrasto lucido/opaco, fustellature che “vestono” i nostri vini con un’immagine particolarmente preziosa”. Il packaging effettivamente sa farsi notare e tanto basta.

Un Cannonau che Vuol Fare l’Americano


One Hundred, Bovale, Cantina (Gianluigi) Deaddis.

Originale, certo, questa etichetta che si presenta con un grande numero 1 in evidenza. Anzi, in grande evidenza. La ragione di questo nome, “One Hundred” o, se vogliamo, “1 Hundred” sembra essere la celebrazione di un’annata particolare, infatti nel sito del produttore leggiamo: “Un'annata speciale ha reso questo vino unico ed inimitabile, intensi profumi di macchia mediterranea esprimono in questa bottiglia straordinarie sensazioni”. Non è dato a sapersi l’annata in questione. Rimane il numero 1 in primo piano, in colore azzurro, a sancire anche una specie di primatismo. Il vitigno è di quelli assolutamente autoctoni, il Bovale, detto anche Muristellu, nell’idioma locale. Ma torniamo all’etichetta e alla sua grafica. Alla base del numero 1 troviamo il logo dell’azienda: delle iscrizioni rupestri tipiche dei nuraghi, simbolo di quella zone di Sardegna. Il fondo nero fornisce eleganza, i contorni in oro anche. Con il limite che queste cromìe potrebbero essere assimilate a un certo stile funerario. La capsula color granata sul collo della bottiglia stona un po’ e anche questo vezzo di utilizzare un nome in inglese, soprattutto in un discorso generale di territorialità, non si comprende fino in fondo. Ultima osservazione: il dominio internet e in generale le diciture di comunicazione recitano “Cantina Deaddis”, mentre sulla bottiglia, si legge “Cantina Gianluigi Deaddis”. Smagliature.

Col Tavolino tra le Colline Storiche dell’Umbria


Macinaia, Calcinaio e Rondolaio, Conti Salvatori.

Belle etichette e nomi interessanti per questa linea di vini umbri sotto l’egida della poco conosciuta Doc Colli Altotiberini. La zona è quella dei dintorni di Perugia e i vini in questione sono un mix di internazionalità e regionalità, dal sito del produttore: “Macinaia, un’unione di Chardonnay e Grechetto che si presenta al gusto molto fresco, pulito, elegante e di buon corpo; il Calcinaio, prodotto da uve Sangiovese, che generano un gusto di una freschezza meravigliosa, fragrante, suadente, con una spiccata acidità, ma di una bellissima armonia gustativa; e infine Rondolino, un Cabernet Sauvignon che fa sentire i suoi muscoli e la sua elegante complessità, mantenendo magistralmente un ottimo equilibrio ed un piacevolissimo finale lungo e persistente”. Di questi nomi solo uno è di fatto nel vocabolario (al femminile): la calcinaia infatti, secondo Treccani, è la “…vasca a pareti impermeabili nella quale si spegne la calce viva per trasformarla in grassello”, oppure anche la “…vasca dove si mettono a macerare le pelli in latte di calce per conciarle”. Gli altri due nomi di questi vini sembrerebbero frutto di assonanze neologiche: “Macinaia” (dove si macina il grano?) e Rondolaio (dove nidificano le rondini?). Eleganza a sfondo scuro, con della belle illustrazioni per queste tre etichette, che si rivelano nella parte bassa. Si ispirano alla storia dei luoghi e delle conquiste territoriali in particolare, infatti: “… i Conti Salvatori entrano in possesso della Tenuta Coltavolino nel 1695. I fratelli Orazio e Giuliano Salvatori, dopo aver combattuto al fianco dell’ Imperatore Leopoldo I d’Asburgo contro gli Ottomani, ottennero, per meriti di guerra, i territori di Coltavolino e Montacutello e il titolo di Conti del Sacro Romano Impero”. Da notare il nome della Tenuta: “Coltavolino”, che si potrebbe leggere come “colle tavolino”, ma anche, ironicamente, “col tavolino”, quasi fosse una istigazione per un pic-nic in vigna.

Nobile di Nome, Sangiovese di Fatto


Vino Nobile di Montepulciano.

Perché un vino con un nome così importante (nome di denominazione, intendiamo, cioè nome del vino in senso lato) non ha raggiunto vette di notorietà come altri in Italia (ad esempio l’Amarone, il Brunello, il Barolo che, se vogliamo, hanno nomi meno sontuosi)? La parola “nobile”, infatti, basta da sola a fornire un concetto elevato di qualità. Eppure il Vino Nobile di Montepulciano non scala ancora oggi le classifiche dei vini più rinomati. Forse per quella questione della confusione territoriale e ampelografica con il Montepulciano vero e proprio? Ricordiamo che il Vino Nobile di Montepulciano (comune toscano di produzione) è costituito al 70% dal vitigno Sangiovese (e per il resto da altri vini autorizzati in Regione), mentre il Montepulciano vero e proprio è un vitigno che si chiama così e che alberga prevalentemente in Abruzzo. Certo che la possibilità di confondere i due vini è notevole, per i non addetti ai lavori. Si tratta quindi di un caso (il Nobile) di vino che non avrebbe bisogno di un nome vero e proprio, presentando, per legge, in etichetta, il suo altisonante nome “tecnico” e fungendo questo da indiscutibile richiamo mnemonico e semantico a percezioni di notevole caratura. Diamo la colpa di questo mancato successo commerciale anche al Consorzio e al marketing che (non) è stato sviluppato? Chi lo sa? Di fatto il vino è molto buono, per quelle produzioni di aziende storiche e qualificate. E tutto sommato la tavola non è uno scaffale.

Le Calende Piemontesi al Sapor di Nebbiolo

                            

Le Calende, Nebbiolo d’Alba, Terre del Barolo.

Stilisticamente bella questa etichetta da GDO del produttore Terre del Barolo. La linea, che comprende anche altri vitigni oltre a questo Nebbiolo, si chiama “Le Calende”. Nella percezione generale le calende sono collegate a quelle greche (che di fatto sono quelle romane, da qui “calendario”). Ed esattamente, secondo Wikipedia: “ La locuzione italiana ‘alle calende greche’, derivante da quella latina kalendas graecas, ha il significato metaforico di "mai". La frase ‘ad kalendas graecas soluturos’ ("intenzionati a pagare alle calende greche") è attribuita all'Imperatore Augusto che ne avrebbe fatto uso di frequente per indicare persone che non intendevano pagare un debito. Il significato di "mai" deriva dal fatto che le calende esistevano solo nel calendario romano, nel quale corrispondevano al 1º giorno di ogni mese, e non in quello greco: protrarre un pagamento fino alle calende greche voleva dire riportarlo ad una scadenza inesistente”. Da sempre nota negli ambienti contadini è la Calenda di Maggio, cioè il primo giorno di quel mese, inteso come vero inizio della bella stagione e quindi atteso spasmodicamente. Il sospetto è che si possano chiamare così anche alcune conformazioni collinari tipiche della zona del Barolo, ma questa è tutta un’altra storia. Da notare, a livello grafico, in questa etichetta, l’appropriato uso degli inchiostri a rilievo che tracciano sia il disegno centrale sia il nome del vino in alto. Bella sintesi, ottima memorabìlia.

Il Massaro, la Massaia e la Masseria


Motula, Primitivo, Masseria Liuzzi.

Da dove può nascere il nome di questo vino? Parola strana, difficile da collocare semanticamente, e infatti deriva da una collocazione topografica, ben spiegata dal produttore stesso nel proprio sito internet: “La “Masseria Liuzzi” sita in contrada Marinara dell’agro di Mottola, nasce oltre un secolo fa come “I Casidd d Liuzzi”, ad indirizzo cerealicolo/zootecnico. Col tempo e nei vari passaggi, l’attuale “Masseria Liuzzi” ha pian piano convertito la sua vocazione agricola nella produzione viticola su circa 10 ettari di terreno, di natura mediamente argilloso/calcareo di limitato spessore, poggiante sui banchi compatti di roccia spesso affiorante in superficie, esposti a Sud ad un altitudine media s.l.m. di circa mt. 270. Nel contesto dei produttori tarantini, ben si colloca l’azienda vitivinicola “Masseria Liuzzi”, che dall’anno 2010, produce direttamente il proprio “Primitivo” I.G.T. in modo naturale rispettando la migliore tradizione contadina”. In un solo, breve, racconto abbiamo appreso le origini del nome del vino, e del nome dell’azienda, entrambi affioranti dalla storia e dalle tradizioni dei luoghi. Non ci rimane che andare a cercare l’origine della parola “Masseria” che Treccani spiega così: “Masseria (o massaria), derivato da massaio (o massaro) cioè l’azienda rurale diretta da un contadino secondo il contratto di colonia parziaria”. Forse da qui anche la parola “massaia”, cioè colei che dirige le faccende domestiche? E infine un commento alla grafica dell’etichetta: spartana, lineare, diretta, pulita, efficace. Null’altro da aggiungere.

Il Cantone Pugliese dell’Aleatico


Cantone di Cristo, Aleatico, Giuliani.

Non siamo in Svizzera dove i cantoni definiscono le aree geografiche nonché linguistiche del paese. Qui siamo molto più a sud, nelle Murge, in provincia di Bari. Il cantone di cui “parla” questo vino, dunque, si riferisce probabilmente a qualche reperto topografico nonché storico. Il nome di questo Aleatico, infatti, è “Cantone di Cristo”. Una specie di benedizione, visto che come passito si avvicina molto alla tipologia di vini che vengono ancora oggi utilizzati nello svolgimento della Messa di rito Cattolico. Si tratta di uno dei pochissimi vini rossi dolci d’Italia e per la precisione il produttore, che data un imprimatur del 1886, così ce lo racconta: “Cantone di Cristo è un vino dolce, un vino da meditazione, da gustare lentamente durante la lettura di un buon libro, davanti al camino, in una situazione di completo relax. È adatto anche a fine pasto, abbinato a un ottimo caciocavallo di media stagionatura o a dolci di mandorle, pasticceria secca e cioccolato”. L’etichetta è caratterizzata da un arbusto decorativo collocato proprio sopra al nome del vino. Alla base il nome del vitigno e quello dell’azienda produttrice. La bottiglia è di quelle snelle e alte come sovviene per i vini dolci. Sfondo scuro, particolari in oro e argento, eleganza ma anche sobrietà che connotano un prodotto ricercato e di sicuro effetto scenografico.

Un Packaging Conciato per le Feste


Creadele, Packaging Personalizzato.

Si sa che in dicembre, ogni Santo Dicembre, la ricerca di regali originali diventa frenetica. Con l’obiettivo di regalare qualcosa di unico e non solo come gesto simbolico. Ed ecco che un’azienda formata da tre giovani donne, Adele, Giulia e Valentina, propone confezioni personalizzate in legno (anche pregiato, come il larice). L’azienda artigianale si trova a Selvino, in provincia di Bergamo, paese immerso nelle montagne e circondato da boschi. L’idea è quella, tra le altre proposte della bottega artigianale, di vestire le bottiglie di vino con un ulteriore “abito”, oltre all’etichetta d’ordinanza, che impreziosisce il regalo potendo scrivere nomi e dediche. Semplice ed efficace. Le cassettine portabottiglia possono avere la chiusura a gancio o con un coperchio scorrevole. Nel caso mostrato nella foto assistiamo a una divertente dicotomia: dalle montagne al mare, cassetta di legno per un vino siciliano, un Grecanico che si chiama Roccarosa. In etichetta una bella raffigurazione di un paese in riva al mare con alle spalle un massiccio roccioso. Packaging delle feste per tavole festose. E che sia di buon auspicio per tutti i lieti calici!

Bottiglia Quadrata, Lambrusco a Tutto Tondo


Nerodilambrusco, Otello Ceci, Cantine Ceci.

La bottiglia innanzitutto: in questa foto non si percepisce ma la sua forma è inusuale, cioè quadrata. Si comprende invece molto chiaramente “al tatto”, prendendo in mano la bottiglia, che non siamo di fronte alle solite curvature. Bensì a quattro spigoli. Si fa notare anche così, questo Lambrusco della storica cantina Ceci. E anche per il nome del vino: Nerodilambrusco, tutto attaccato. Fa parte della Linea Edizione 1813 che è dedicata al fondatore dell’azienda, Otello. Interessante il commento che l’azienda ha inserito nella scheda tecnica di questo vino: “Impara le regole come un professionista, in modo da poterle rompere come un artista”. (Pablo Picasso). “Otello Ceci Nerodilambrusco è la rottura delle regole, è il potere dell’artista. È un’idea, una promessa, un patto. C’è tutto il mondo del Lambrusco in questo vino e del suo essere riconosciuto, ma ci sono anche strade poco frequentate dalla tradizione che esaltano il gusto del Lambrusco, ed è qui che inizia il viaggio nell’emozione delle scoperte, dove profondità e leggerezza sono le vie che esaltano l’arte di questo vino”. Un omaggio a Picasso e alla voglia di stupire con creatività e unicità. Si può fare, anche con un vitigno bistrattato come il Lambrusco. Completano l’opera un packaging in stile molto classico con inchiostri dorati e in rilievo. P.S.: attenzione, in etichetta notiamo due numeri: 1813 e 1938, potrebbero generare confusione. 1938 è l’effettivo anno di fondazione dell’azienda.

Brutto un Nome, Bello l’Altro (Vitigno)


Altrauva, Ortrugo, Lusenti.

Il nome del vitigno di cui è composto al 100% questo vino è proprio brutto. E’ una parola che si potrebbe definire cacofonica: “Ortrugo”. E non è nemmeno un vitigno noto e particolarmente virtuoso. Viene coltivato unicamente sulle colline piacentine. In questo caso a Ziano Piacentino dove l’azienda Lusenti porta avanti una tradizione di famiglia (biologica, su 20 ettari), oggi grazie a Lodovica Lusenti e a sua figlia Martina. Il nome del vino invece è gradevole e originale “Altrauva”. A segnare il passo di questo vitigno che risulta così inconsueto da essere strano: in dialetto locale “ortr  ug” significa proprio “altra uva” (giacchè una volta veniva utilizzata solo come blend aggiuntivo con la Malvasia di Candia, assoluta protagonista di quelle colline). Oggi l’altra uva in questione consente di produrre un vino bianco frizzante, diventato tipico di quelle zone, adatto anche ai salumi. Cosa aggiungere su questa etichetta? In alto vediamo il logo dell’azienda, una coppia di colombi nella piccionaia; tutto attorno una serie di decorazioni che sembrano palle dell’albero di Natale (o chicchi di caffé) di colore giallo e verdognolo (sì, ok, sono gli acini d’uva). Nota creativa: il nome del vino viene scritto con le lettere disassate a formare dislivelli tipografici che apportano un aspetto originale. 

PiWi, PiWi, Hurrà!


Novello, Blend di Piwi, La Cantina Pizzolato.

Questa fantasiosa etichetta rivela alcune interessanti peculiarità di una collezione di vini naturali (bio, vegani, PiWi e quant’altro) ad opera di Settimo Pizzolato, fondatore dell’omonima cantina. A dire il vero l’esatta dizione, cioè il nome dell’azienda, è “La Cantina Pizzolato”. Strana composizione che “allunga il brodo”, ma forse anche questo serve a farsi notare. Le etichette di questa serie di vini PiWi (varietà di vitigni “resistenti”, cioè tipologie che non vengono contaminate da funghi e altre malattie della vite) hanno inoltre una caratteristica molto particolare: sono apribili come la pagina di un libro e leggibili. Vengono definite come “etichette parlanti”. In pratica in alto a sinistra, dove si vede una libellula, è possibile aprire l’etichetta tirando il lembo corrispondente all’ala sinistra dell’ecologico insetto. Operando tale gesto, nel retro di questo packaging decomponibile si leggono le caratteristiche del vino, e in particolare dei vitigni PiWi. Quello che vediamo in etichetta sono alcune parole concentrate al centro di un cerchio nero: Pizzolato, Piwi, Novello, Vino Biologico, Senza Solfiti Aggiunti. Questo bollo informativo giace su un fondo decorato con flora artistica di colore rosso acceso. Sulla sinistra, in alto, una libellula azzurra. Lo stile è tra il moderno e il “digitalizzato”, l’effetto cromatico molto attenzionale. In alto a destra un piccolo logo con degli archi stilizzati di un edificio (probabilmente la sede dell’azienda). Progetto ambizioso e coraggioso. L’etichetta pure. P.S.: i due vitigni che compongono questo vino si chiamano Merlot Khorus e Cabernet Cortis.

Un Traminer Otticamente Perfetto


Traminer Aromatico, Cantina Puiatti.

Che questo vino “arancione” (esteriormente) sia riconducibile alla nota cantina friulana Puiatti, non presenta dubbi in merito. Il nome del produttore viene scritto in etichetta così grande da poter essere catalogato come cartello segnaletico. Complice anche il colore di fondo di questo packaging che possiamo definire, come minimo, “ottico”. Al centro unicamente il nome del vitigno, Traminer Aromatico. Niente più. La semplicità più concreta e statuaria che si possa immaginare. In questo blog abbiamo più volte discettato sul fatto che “nel meno c’è il più”, cioè che la semplicità, in comunicazione, vince sempre. Forse non sempre. Laddove semplicità significa anche sterilità. In pratica è molto comodo mascherarsi dietro a delle scelte creative semplici, magari per mancanza di idee. Certo, questa etichetta si fa notare, quel risultato lo ottiene. E forse anche quello di farsi ricordare. Potrebbe mancare un po’ di emozione? Qualcosa che provochi un guizzo romantico, un vibrazione semantica, una circostanza mnemonica? Il colore in questo caso compensa la mancanza di altri elementi. Diciamo pure che l’idea, in questo caso, sta in quel colore arancione che raramente si vede nelle etichette dei vini. E la chiudiamo qui.

Un Assaggio di Qualità nella Piana Rotaliana


Clesurae, Teroldego, Cantina Rotaliana.

Questa etichetta veste il vino di punta di una cantina sociale trentina, frutto della fusione, avvenuta nel 1968, tra la Cantina Cooperativa di Mezzolombardo e l’Enologica Rotaliana. Il nome attuale dell’azienda riassume infatti queste due realtà, anche semanticamente: Cantina Rotaliana. Si tratta di una classica cantina “di montagna” (ma che opera in pianura) dove molti piccoli e grandi viticoltori conferiscono le uve (attualmente i soci conferitori sono quasi 300). Il vino che presentiamo in questo breve articolo si chiama “Clesurae”, cioè “serratura” in latino, ma anche “chiusura” con riferimento ai “clos” francesi, piccoli appezzamenti di vigna spesso racchiusi entro il perimetro di mura fatte di sassi e costruite a secco. Sta a significare che le uve che compongono questo vino rosso (vitigno 100% Teroldego, il Re di quella zona chiamata Piana Rotaliana) sono selezionate. Provengono infatti da un vigneto di 50 anni nel quale le rese vengono limitate a 90 quintali per ettaro. Insomma, un vino di tutto rispetto, che rimane 24 mesi in barrique per acquisire maturità e possanza. In etichetta scorgiamo caratteri arcaici, e anche una curiosa illustrazione con due uomini vendemmianti, uno dei quali sta scaricando l’uva da una cesta e l’altro assaggia un acino preso da un grappolo. Ancora oggi infatti, nonostante metodi di rilevazione molto specifici e tecnici, la maturità e la qualità delle uve viene spesso accertata… al gusto. I toni cromatici molto rossi, facilitano una “presa di attenzione” sullo scaffale. Un certa originalità dello stile assolverà anch’essa ai propri compiti.

A Strevi, Caricano l’Asino con il Carialoso


Carialoso, Caricalasino, Marenco.

I nomi dei vini di questa azienda piemontese, che opera nei pressi di Strevi, vicino ad Acqui Terme, sono abbastanza sorprendenti. Nel senso che molti di essi rischiano di “suonare male”. Oltre a questo “Carialoso” (del nome antico della vigna di provenienza delle uve), nella gamma troviamo “Scrapona” (Moscato d’Asti), Bassina (Barbera d’Asti), Ma Mù (Moscato Secco), Valtignosa (Cortese). Infatti per i nomi, la fonetica si mescola con la semantica, generando quella che è la percezione “a valle”, cioè nella mente dell’attuale o del potenziale cliente consumatore. In particolare in una etichetta come questa, molto povera di elementi (ma questo può essere un pregio), cioè incisiva con i suoi contenuti, il nome del vino emerge moltissimo, diventa protagonista, insieme a quello del produttore. Il nome Marenco, in alto, sovrastato da due anatre in volo, prende il sopravvento grazie al carattere di scrittura di forte struttura, ma anche il nome del vino, in azzurro, sia pure in corsivo, acquisisce importanza grazie alla sua centralità. Bella la carta dell’etichetta, di spessore al tatto, che fornisce eleganza e sobrietà al tempo stesso. Certo che “Carialoso” può davvero riportare qualcosa di sgradevole come ad esempio la carie. Chissà se ci hanno pensato, prima di decidere di chiamare così questo bianco del Monferrato… P.S.: il vitigno di questo vino ha pure lui un nome davvero particolare, “Caricalasino”. E non è uno scherzo: si chiama proprio così. Sembra, in origine perché si tratta di uve particolarmente produttive che generavano grossi carichi per quantità e volume (oggi le rese sono ridotte per mano e per scelta del viticoltore).

Mai Fidarsi della Volpe, ma del Galluccio sì


Consiglio di Volpe, Falanghina, Az. Agr. San Teodoro.

Il curioso nome di questo vino ha una spiegazione molto particolare, proverbiale e logicamente molto locale. Scrive infatti a tal proposito, nel proprio sito internet, il produttore: “Consiglio di volpe: danno per le galline”, vecchio adagio che mette in guardia le persone meno furbe dal seguire i consigli sicuramente interessati dei più accorti. Così ironizzava chi vedeva Giuseppe e i suoi amici intenti a parlare di lavoro e futuro godendo del buon umore dei riti conviviali. Esorcizzandone il significato, abbiamo chiamato con questo nome la nostra Falanghina”. Giuseppe (Santoro), insieme al fratello Pietro, è il fondatore dell’azienda, nata nel 2004, ed operante a Galuccio, in provincia di Caserta. Il luogo di produzione è anche il nome della quasi sconosciuta Dop, cioè Galluccio Bianco (così come specularmente per i vini rossi esiste la Dop Galluccio Nero, che nulla ha da spartire con il molto più celebre Gallo Nero toscano). Il vitigno è la Falanghina, regina di quella regione, tradizionalmente più avvezza ai vini bianchi. Anche il nome della vigna di provenienza delle uve ha la sua originalità: Vigna Coraggio. A parte questo quello che possiamo apprezzare è un’etichetta molto colorata, di stile vagamente arabeggiante, dove una volpe guarda alla luna, sovrastata da un volatile che si direbbe una colomba, in un cielo azzurro e stellato. San Teodoro, nome dell’azienda, si manifesta benedicente nel logo che scorgiamo in basso a destra. Nel complesso si tratta di un packaging in grado di attirare l’attenzione, per cromatismi, contenuti e racconto ad essi collegati.

Un Rosso che Attira l’Attenzione


Baciamisubito, Barbera del Monferrato, Az. Agr. La Scamuzza.

L’originale nome di questo vino potrebbe parafrasare il celebre film del 1964, del regista Billy Wilder (titolo originale “Kiss me, stupid”), Baciami Stupido, con due protagonisti d’eccezione come Kim Novak e Dean Martin. La storia di questo nome, invece, attiene alla considerazione che questo vino è come un bacio, da cogliere subito, senza esitazioni, così come i piaceri veri, enogastronomici, della buona tavola. Nasce con queste considerazioni un’etichetta sicuramente di grande impatto, non solo per il nome del vino, ma anche e soprattutto per le labbra rosse che emergono da una foto in bianco e nero. Viso di donna, rappresentato da naso e bocca, elementi determinanti per definire la bellezza di un volto, insieme agli occhi, naturalmente, in questo caso abilmente celati. Infatti gli stimoli visivi della bellezza e dell’attrazione devono concedere e privare, in un gioco delle percezioni che si fa memoria. E’ questo il compito di una etichetta delegata a colpire. Ed è per questo che il packaging di questa Barbera del Monferrato colpisce anche a distanza, sullo scaffale e ancora di più su una tavola imbandita e candida. La produzione di questo vino è davvero minima, poche migliaia di bottiglie ogni anno, da parte di un produttore (Laura Zavattaro, a Vignale Monferrato, associata storica delle Donne del Vino) che punta alla qualità e ad una determinazione delle vigne, cioè della provenienza delle uve, da “grand cru”, come si usa dire nella vicina Francia. Un rosso che si fa notare, in tutti i sensi.

Un Rebus in Diebus in Terra Latina


Busillis, Viognier, Trerose (Tenute Angelini).

Un’azienda farmaceutica di grande fama e fatturato si trasforma in un produttore di vino da 1 milione di bottiglie l’anno. Questo è stato possibile grazie agli investimenti della famiglia Angelini che, passo dopo passo, attualmente raggruppa e possiede diversi marchi in Toscana, Marche, Veneto e Friuli: Bertani, Val di Suga, Trerose, San Leonino, Puiatti ed altri verranno. La chimica delle medicine, unita alla biochimica dell’enologia. Un vino che guarisce, in poche parole. In questo breve commento parliamo di un Viognier toscano, prodotto nei pressi di Montepulciano che ha un nome particolare, “Busillis”. Chi ha studiato latino riconosce tale sonorità. E il significato? Sarebbe “questione spinosa, difficoltà, punto dolente della discussione” (probabilmente riferito alla stranezza e difficoltà di coltivare il vitigno Viognier in Toscana). L’origine di questo nome è legato a un racconto che Wikipedia ci dona nella sua versione originale: “Un altro esempio della scarsa conoscenza della lingua latina da parte degli ecclesiastici è l'episodio di colui che chiese al maestro Giovanni di Cornovaglia chi fosse Busillis. Pensava infatti che fosse il nome proprio di un re o di un qualche grand'uomo. Quando il maestro Giovanni gli chiese in quale testo si trovasse tale nome, rispose che si trovava nel messale; e scorrendo il suo libro, gli mostrò alla fine di una colonna della pagina le parole "in die", e all'inizio dell'altra colonna "bus illis", che, sillabate correttamente, si leggono "in diebus illis" ("in quei giorni"). Visto ciò, il maestro Giovanni gli disse che, avendo quella parola origine dalla pagina divina, cioè dal Vangelo, il giorno dopo avrebbe voluto indagarla col pubblico della sua lezione. Quando lo fece, avendo suscitato il riso di tutti, il maestro prese l'occasione per mostrare con diversi esempi quanto sia grande per il clero la vergogna e lo scandalo derivante dalle tenebre dell'ignoranza e della mancanza di letture”. (Giraldus Cambrensis, Gemma Ecclesiastica, II, cap. 35 [Enormitatum exempla quae ex imperitia sacerdotum et illiteratura proveniunt] ed. London 1862). Concludendo: “L'errore dell'amanuense diventa comprensibile se si considera che l'uso di lasciare uno spazio tra le parole è un'acquisizione recente. Non tutte le lingue lo fanno: il cinese e il gioapponese moderni ad esempio scrivono i loro testi senza nessuna interruzione. Gli spazi non vennero usati in latino fino al 600 d.C./800 d.C. circa. Al loro posto si usava il punto mediano”. Svelato il busillis non ci resta che riempire i calix di latina memoria.

La Lucertola Ribelle di un Domaine del Rodano


Prima, Rosé, Domaine de l’Anglore.

Questo vino estremamente naturale, no filtrazioni, macerazione carbonica a grappolo intero, si presenta con un rosato intenso… anche in etichetta. Anzi, nel packaging i particolari di stampa sono proprio rossi. Rossa è la lucertola che alberga al centro dell’etichetta e che sicuramente sta a rappresentare la biodiversità, insomma la presenza naturale di tutti gli elementi spontanei della fauna e della flora in vigna. Rosso è il nome del vino, curiosamente in italiano, “Prima”, forse ad esprimere il primato della natura sul lavoro dell’uomo. Rosso è il nome dell’azienda, “l’Anglore”, e le scritte di legge alla base dell’elaborato. Bella la carta leggermente goffrata, cioè ruvida la tatto, a sancire una certa manualità che ancora oggi contraddistingue il lavoro di questa cantina: raccolta a mano, lavorazioni artigianali dall’inizio alla fine. E il vino? Ruvido anch’esso, non potrebbe essere diverso. Appartiene a quella categoria di prodotti enologici che vuole essere “anomalo” per definizione, ribelle, ancestrale, scapestrato, anticonformista, mettetela come volete, ma state attenti alla volatile (che non è un uccello, ma il modo in cui i sommelier definiscono quello spunto acetico che a molti dà proprio fastidio). Pace e bere.