Le Calende Piemontesi al Sapor di Nebbiolo

                            

Le Calende, Nebbiolo d’Alba, Terre del Barolo.

Stilisticamente bella questa etichetta da GDO del produttore Terre del Barolo. La linea, che comprende anche altri vitigni oltre a questo Nebbiolo, si chiama “Le Calende”. Nella percezione generale le calende sono collegate a quelle greche (che di fatto sono quelle romane, da qui “calendario”). Ed esattamente, secondo Wikipedia: “ La locuzione italiana ‘alle calende greche’, derivante da quella latina kalendas graecas, ha il significato metaforico di "mai". La frase ‘ad kalendas graecas soluturos’ ("intenzionati a pagare alle calende greche") è attribuita all'Imperatore Augusto che ne avrebbe fatto uso di frequente per indicare persone che non intendevano pagare un debito. Il significato di "mai" deriva dal fatto che le calende esistevano solo nel calendario romano, nel quale corrispondevano al 1º giorno di ogni mese, e non in quello greco: protrarre un pagamento fino alle calende greche voleva dire riportarlo ad una scadenza inesistente”. Da sempre nota negli ambienti contadini è la Calenda di Maggio, cioè il primo giorno di quel mese, inteso come vero inizio della bella stagione e quindi atteso spasmodicamente. Il sospetto è che si possano chiamare così anche alcune conformazioni collinari tipiche della zona del Barolo, ma questa è tutta un’altra storia. Da notare, a livello grafico, in questa etichetta, l’appropriato uso degli inchiostri a rilievo che tracciano sia il disegno centrale sia il nome del vino in alto. Bella sintesi, ottima memorabìlia.

Il Massaro, la Massaia e la Masseria


Motula, Primitivo, Masseria Liuzzi.

Da dove può nascere il nome di questo vino? Parola strana, difficile da collocare semanticamente, e infatti deriva da una collocazione topografica, ben spiegata dal produttore stesso nel proprio sito internet: “La “Masseria Liuzzi” sita in contrada Marinara dell’agro di Mottola, nasce oltre un secolo fa come “I Casidd d Liuzzi”, ad indirizzo cerealicolo/zootecnico. Col tempo e nei vari passaggi, l’attuale “Masseria Liuzzi” ha pian piano convertito la sua vocazione agricola nella produzione viticola su circa 10 ettari di terreno, di natura mediamente argilloso/calcareo di limitato spessore, poggiante sui banchi compatti di roccia spesso affiorante in superficie, esposti a Sud ad un altitudine media s.l.m. di circa mt. 270. Nel contesto dei produttori tarantini, ben si colloca l’azienda vitivinicola “Masseria Liuzzi”, che dall’anno 2010, produce direttamente il proprio “Primitivo” I.G.T. in modo naturale rispettando la migliore tradizione contadina”. In un solo, breve, racconto abbiamo appreso le origini del nome del vino, e del nome dell’azienda, entrambi affioranti dalla storia e dalle tradizioni dei luoghi. Non ci rimane che andare a cercare l’origine della parola “Masseria” che Treccani spiega così: “Masseria (o massaria), derivato da massaio (o massaro) cioè l’azienda rurale diretta da un contadino secondo il contratto di colonia parziaria”. Forse da qui anche la parola “massaia”, cioè colei che dirige le faccende domestiche? E infine un commento alla grafica dell’etichetta: spartana, lineare, diretta, pulita, efficace. Null’altro da aggiungere.

Il Cantone Pugliese dell’Aleatico


Cantone di Cristo, Aleatico, Giuliani.

Non siamo in Svizzera dove i cantoni definiscono le aree geografiche nonché linguistiche del paese. Qui siamo molto più a sud, nelle Murge, in provincia di Bari. Il cantone di cui “parla” questo vino, dunque, si riferisce probabilmente a qualche reperto topografico nonché storico. Il nome di questo Aleatico, infatti, è “Cantone di Cristo”. Una specie di benedizione, visto che come passito si avvicina molto alla tipologia di vini che vengono ancora oggi utilizzati nello svolgimento della Messa di rito Cattolico. Si tratta di uno dei pochissimi vini rossi dolci d’Italia e per la precisione il produttore, che data un imprimatur del 1886, così ce lo racconta: “Cantone di Cristo è un vino dolce, un vino da meditazione, da gustare lentamente durante la lettura di un buon libro, davanti al camino, in una situazione di completo relax. È adatto anche a fine pasto, abbinato a un ottimo caciocavallo di media stagionatura o a dolci di mandorle, pasticceria secca e cioccolato”. L’etichetta è caratterizzata da un arbusto decorativo collocato proprio sopra al nome del vino. Alla base il nome del vitigno e quello dell’azienda produttrice. La bottiglia è di quelle snelle e alte come sovviene per i vini dolci. Sfondo scuro, particolari in oro e argento, eleganza ma anche sobrietà che connotano un prodotto ricercato e di sicuro effetto scenografico.

Un Packaging Conciato per le Feste


Creadele, Packaging Personalizzato.

Si sa che in dicembre, ogni Santo Dicembre, la ricerca di regali originali diventa frenetica. Con l’obiettivo di regalare qualcosa di unico e non solo come gesto simbolico. Ed ecco che un’azienda formata da tre giovani donne, Adele, Giulia e Valentina, propone confezioni personalizzate in legno (anche pregiato, come il larice). L’azienda artigianale si trova a Selvino, in provincia di Bergamo, paese immerso nelle montagne e circondato da boschi. L’idea è quella, tra le altre proposte della bottega artigianale, di vestire le bottiglie di vino con un ulteriore “abito”, oltre all’etichetta d’ordinanza, che impreziosisce il regalo potendo scrivere nomi e dediche. Semplice ed efficace. Le cassettine portabottiglia possono avere la chiusura a gancio o con un coperchio scorrevole. Nel caso mostrato nella foto assistiamo a una divertente dicotomia: dalle montagne al mare, cassetta di legno per un vino siciliano, un Grecanico che si chiama Roccarosa. In etichetta una bella raffigurazione di un paese in riva al mare con alle spalle un massiccio roccioso. Packaging delle feste per tavole festose. E che sia di buon auspicio per tutti i lieti calici!

Bottiglia Quadrata, Lambrusco a Tutto Tondo


Nerodilambrusco, Otello Ceci, Cantine Ceci.

La bottiglia innanzitutto: in questa foto non si percepisce ma la sua forma è inusuale, cioè quadrata. Si comprende invece molto chiaramente “al tatto”, prendendo in mano la bottiglia, che non siamo di fronte alle solite curvature. Bensì a quattro spigoli. Si fa notare anche così, questo Lambrusco della storica cantina Ceci. E anche per il nome del vino: Nerodilambrusco, tutto attaccato. Fa parte della Linea Edizione 1813 che è dedicata al fondatore dell’azienda, Otello. Interessante il commento che l’azienda ha inserito nella scheda tecnica di questo vino: “Impara le regole come un professionista, in modo da poterle rompere come un artista”. (Pablo Picasso). “Otello Ceci Nerodilambrusco è la rottura delle regole, è il potere dell’artista. È un’idea, una promessa, un patto. C’è tutto il mondo del Lambrusco in questo vino e del suo essere riconosciuto, ma ci sono anche strade poco frequentate dalla tradizione che esaltano il gusto del Lambrusco, ed è qui che inizia il viaggio nell’emozione delle scoperte, dove profondità e leggerezza sono le vie che esaltano l’arte di questo vino”. Un omaggio a Picasso e alla voglia di stupire con creatività e unicità. Si può fare, anche con un vitigno bistrattato come il Lambrusco. Completano l’opera un packaging in stile molto classico con inchiostri dorati e in rilievo. P.S.: attenzione, in etichetta notiamo due numeri: 1813 e 1938, potrebbero generare confusione. 1938 è l’effettivo anno di fondazione dell’azienda.

Brutto un Nome, Bello l’Altro (Vitigno)


Altrauva, Ortrugo, Lusenti.

Il nome del vitigno di cui è composto al 100% questo vino è proprio brutto. E’ una parola che si potrebbe definire cacofonica: “Ortrugo”. E non è nemmeno un vitigno noto e particolarmente virtuoso. Viene coltivato unicamente sulle colline piacentine. In questo caso a Ziano Piacentino dove l’azienda Lusenti porta avanti una tradizione di famiglia (biologica, su 20 ettari), oggi grazie a Lodovica Lusenti e a sua figlia Martina. Il nome del vino invece è gradevole e originale “Altrauva”. A segnare il passo di questo vitigno che risulta così inconsueto da essere strano: in dialetto locale “ortr  ug” significa proprio “altra uva” (giacchè una volta veniva utilizzata solo come blend aggiuntivo con la Malvasia di Candia, assoluta protagonista di quelle colline). Oggi l’altra uva in questione consente di produrre un vino bianco frizzante, diventato tipico di quelle zone, adatto anche ai salumi. Cosa aggiungere su questa etichetta? In alto vediamo il logo dell’azienda, una coppia di colombi nella piccionaia; tutto attorno una serie di decorazioni che sembrano palle dell’albero di Natale (o chicchi di caffé) di colore giallo e verdognolo (sì, ok, sono gli acini d’uva). Nota creativa: il nome del vino viene scritto con le lettere disassate a formare dislivelli tipografici che apportano un aspetto originale. 

PiWi, PiWi, Hurrà!


Novello, Blend di Piwi, La Cantina Pizzolato.

Questa fantasiosa etichetta rivela alcune interessanti peculiarità di una collezione di vini naturali (bio, vegani, PiWi e quant’altro) ad opera di Settimo Pizzolato, fondatore dell’omonima cantina. A dire il vero l’esatta dizione, cioè il nome dell’azienda, è “La Cantina Pizzolato”. Strana composizione che “allunga il brodo”, ma forse anche questo serve a farsi notare. Le etichette di questa serie di vini PiWi (varietà di vitigni “resistenti”, cioè tipologie che non vengono contaminate da funghi e altre malattie della vite) hanno inoltre una caratteristica molto particolare: sono apribili come la pagina di un libro e leggibili. Vengono definite come “etichette parlanti”. In pratica in alto a sinistra, dove si vede una libellula, è possibile aprire l’etichetta tirando il lembo corrispondente all’ala sinistra dell’ecologico insetto. Operando tale gesto, nel retro di questo packaging decomponibile si leggono le caratteristiche del vino, e in particolare dei vitigni PiWi. Quello che vediamo in etichetta sono alcune parole concentrate al centro di un cerchio nero: Pizzolato, Piwi, Novello, Vino Biologico, Senza Solfiti Aggiunti. Questo bollo informativo giace su un fondo decorato con flora artistica di colore rosso acceso. Sulla sinistra, in alto, una libellula azzurra. Lo stile è tra il moderno e il “digitalizzato”, l’effetto cromatico molto attenzionale. In alto a destra un piccolo logo con degli archi stilizzati di un edificio (probabilmente la sede dell’azienda). Progetto ambizioso e coraggioso. L’etichetta pure. P.S.: i due vitigni che compongono questo vino si chiamano Merlot Khorus e Cabernet Cortis.

Un Traminer Otticamente Perfetto


Traminer Aromatico, Cantina Puiatti.

Che questo vino “arancione” (esteriormente) sia riconducibile alla nota cantina friulana Puiatti, non presenta dubbi in merito. Il nome del produttore viene scritto in etichetta così grande da poter essere catalogato come cartello segnaletico. Complice anche il colore di fondo di questo packaging che possiamo definire, come minimo, “ottico”. Al centro unicamente il nome del vitigno, Traminer Aromatico. Niente più. La semplicità più concreta e statuaria che si possa immaginare. In questo blog abbiamo più volte discettato sul fatto che “nel meno c’è il più”, cioè che la semplicità, in comunicazione, vince sempre. Forse non sempre. Laddove semplicità significa anche sterilità. In pratica è molto comodo mascherarsi dietro a delle scelte creative semplici, magari per mancanza di idee. Certo, questa etichetta si fa notare, quel risultato lo ottiene. E forse anche quello di farsi ricordare. Potrebbe mancare un po’ di emozione? Qualcosa che provochi un guizzo romantico, un vibrazione semantica, una circostanza mnemonica? Il colore in questo caso compensa la mancanza di altri elementi. Diciamo pure che l’idea, in questo caso, sta in quel colore arancione che raramente si vede nelle etichette dei vini. E la chiudiamo qui.

Un Assaggio di Qualità nella Piana Rotaliana


Clesurae, Teroldego, Cantina Rotaliana.

Questa etichetta veste il vino di punta di una cantina sociale trentina, frutto della fusione, avvenuta nel 1968, tra la Cantina Cooperativa di Mezzolombardo e l’Enologica Rotaliana. Il nome attuale dell’azienda riassume infatti queste due realtà, anche semanticamente: Cantina Rotaliana. Si tratta di una classica cantina “di montagna” (ma che opera in pianura) dove molti piccoli e grandi viticoltori conferiscono le uve (attualmente i soci conferitori sono quasi 300). Il vino che presentiamo in questo breve articolo si chiama “Clesurae”, cioè “serratura” in latino, ma anche “chiusura” con riferimento ai “clos” francesi, piccoli appezzamenti di vigna spesso racchiusi entro il perimetro di mura fatte di sassi e costruite a secco. Sta a significare che le uve che compongono questo vino rosso (vitigno 100% Teroldego, il Re di quella zona chiamata Piana Rotaliana) sono selezionate. Provengono infatti da un vigneto di 50 anni nel quale le rese vengono limitate a 90 quintali per ettaro. Insomma, un vino di tutto rispetto, che rimane 24 mesi in barrique per acquisire maturità e possanza. In etichetta scorgiamo caratteri arcaici, e anche una curiosa illustrazione con due uomini vendemmianti, uno dei quali sta scaricando l’uva da una cesta e l’altro assaggia un acino preso da un grappolo. Ancora oggi infatti, nonostante metodi di rilevazione molto specifici e tecnici, la maturità e la qualità delle uve viene spesso accertata… al gusto. I toni cromatici molto rossi, facilitano una “presa di attenzione” sullo scaffale. Un certa originalità dello stile assolverà anch’essa ai propri compiti.

A Strevi, Caricano l’Asino con il Carialoso


Carialoso, Caricalasino, Marenco.

I nomi dei vini di questa azienda piemontese, che opera nei pressi di Strevi, vicino ad Acqui Terme, sono abbastanza sorprendenti. Nel senso che molti di essi rischiano di “suonare male”. Oltre a questo “Carialoso” (del nome antico della vigna di provenienza delle uve), nella gamma troviamo “Scrapona” (Moscato d’Asti), Bassina (Barbera d’Asti), Ma Mù (Moscato Secco), Valtignosa (Cortese). Infatti per i nomi, la fonetica si mescola con la semantica, generando quella che è la percezione “a valle”, cioè nella mente dell’attuale o del potenziale cliente consumatore. In particolare in una etichetta come questa, molto povera di elementi (ma questo può essere un pregio), cioè incisiva con i suoi contenuti, il nome del vino emerge moltissimo, diventa protagonista, insieme a quello del produttore. Il nome Marenco, in alto, sovrastato da due anatre in volo, prende il sopravvento grazie al carattere di scrittura di forte struttura, ma anche il nome del vino, in azzurro, sia pure in corsivo, acquisisce importanza grazie alla sua centralità. Bella la carta dell’etichetta, di spessore al tatto, che fornisce eleganza e sobrietà al tempo stesso. Certo che “Carialoso” può davvero riportare qualcosa di sgradevole come ad esempio la carie. Chissà se ci hanno pensato, prima di decidere di chiamare così questo bianco del Monferrato… P.S.: il vitigno di questo vino ha pure lui un nome davvero particolare, “Caricalasino”. E non è uno scherzo: si chiama proprio così. Sembra, in origine perché si tratta di uve particolarmente produttive che generavano grossi carichi per quantità e volume (oggi le rese sono ridotte per mano e per scelta del viticoltore).

Mai Fidarsi della Volpe, ma del Galluccio sì


Consiglio di Volpe, Falanghina, Az. Agr. San Teodoro.

Il curioso nome di questo vino ha una spiegazione molto particolare, proverbiale e logicamente molto locale. Scrive infatti a tal proposito, nel proprio sito internet, il produttore: “Consiglio di volpe: danno per le galline”, vecchio adagio che mette in guardia le persone meno furbe dal seguire i consigli sicuramente interessati dei più accorti. Così ironizzava chi vedeva Giuseppe e i suoi amici intenti a parlare di lavoro e futuro godendo del buon umore dei riti conviviali. Esorcizzandone il significato, abbiamo chiamato con questo nome la nostra Falanghina”. Giuseppe (Santoro), insieme al fratello Pietro, è il fondatore dell’azienda, nata nel 2004, ed operante a Galuccio, in provincia di Caserta. Il luogo di produzione è anche il nome della quasi sconosciuta Dop, cioè Galluccio Bianco (così come specularmente per i vini rossi esiste la Dop Galluccio Nero, che nulla ha da spartire con il molto più celebre Gallo Nero toscano). Il vitigno è la Falanghina, regina di quella regione, tradizionalmente più avvezza ai vini bianchi. Anche il nome della vigna di provenienza delle uve ha la sua originalità: Vigna Coraggio. A parte questo quello che possiamo apprezzare è un’etichetta molto colorata, di stile vagamente arabeggiante, dove una volpe guarda alla luna, sovrastata da un volatile che si direbbe una colomba, in un cielo azzurro e stellato. San Teodoro, nome dell’azienda, si manifesta benedicente nel logo che scorgiamo in basso a destra. Nel complesso si tratta di un packaging in grado di attirare l’attenzione, per cromatismi, contenuti e racconto ad essi collegati.

Un Rosso che Attira l’Attenzione


Baciamisubito, Barbera del Monferrato, Az. Agr. La Scamuzza.

L’originale nome di questo vino potrebbe parafrasare il celebre film del 1964, del regista Billy Wilder (titolo originale “Kiss me, stupid”), Baciami Stupido, con due protagonisti d’eccezione come Kim Novak e Dean Martin. La storia di questo nome, invece, attiene alla considerazione che questo vino è come un bacio, da cogliere subito, senza esitazioni, così come i piaceri veri, enogastronomici, della buona tavola. Nasce con queste considerazioni un’etichetta sicuramente di grande impatto, non solo per il nome del vino, ma anche e soprattutto per le labbra rosse che emergono da una foto in bianco e nero. Viso di donna, rappresentato da naso e bocca, elementi determinanti per definire la bellezza di un volto, insieme agli occhi, naturalmente, in questo caso abilmente celati. Infatti gli stimoli visivi della bellezza e dell’attrazione devono concedere e privare, in un gioco delle percezioni che si fa memoria. E’ questo il compito di una etichetta delegata a colpire. Ed è per questo che il packaging di questa Barbera del Monferrato colpisce anche a distanza, sullo scaffale e ancora di più su una tavola imbandita e candida. La produzione di questo vino è davvero minima, poche migliaia di bottiglie ogni anno, da parte di un produttore (Laura Zavattaro, a Vignale Monferrato, associata storica delle Donne del Vino) che punta alla qualità e ad una determinazione delle vigne, cioè della provenienza delle uve, da “grand cru”, come si usa dire nella vicina Francia. Un rosso che si fa notare, in tutti i sensi.

Un Rebus in Diebus in Terra Latina


Busillis, Viognier, Trerose (Tenute Angelini).

Un’azienda farmaceutica di grande fama e fatturato si trasforma in un produttore di vino da 1 milione di bottiglie l’anno. Questo è stato possibile grazie agli investimenti della famiglia Angelini che, passo dopo passo, attualmente raggruppa e possiede diversi marchi in Toscana, Marche, Veneto e Friuli: Bertani, Val di Suga, Trerose, San Leonino, Puiatti ed altri verranno. La chimica delle medicine, unita alla biochimica dell’enologia. Un vino che guarisce, in poche parole. In questo breve commento parliamo di un Viognier toscano, prodotto nei pressi di Montepulciano che ha un nome particolare, “Busillis”. Chi ha studiato latino riconosce tale sonorità. E il significato? Sarebbe “questione spinosa, difficoltà, punto dolente della discussione” (probabilmente riferito alla stranezza e difficoltà di coltivare il vitigno Viognier in Toscana). L’origine di questo nome è legato a un racconto che Wikipedia ci dona nella sua versione originale: “Un altro esempio della scarsa conoscenza della lingua latina da parte degli ecclesiastici è l'episodio di colui che chiese al maestro Giovanni di Cornovaglia chi fosse Busillis. Pensava infatti che fosse il nome proprio di un re o di un qualche grand'uomo. Quando il maestro Giovanni gli chiese in quale testo si trovasse tale nome, rispose che si trovava nel messale; e scorrendo il suo libro, gli mostrò alla fine di una colonna della pagina le parole "in die", e all'inizio dell'altra colonna "bus illis", che, sillabate correttamente, si leggono "in diebus illis" ("in quei giorni"). Visto ciò, il maestro Giovanni gli disse che, avendo quella parola origine dalla pagina divina, cioè dal Vangelo, il giorno dopo avrebbe voluto indagarla col pubblico della sua lezione. Quando lo fece, avendo suscitato il riso di tutti, il maestro prese l'occasione per mostrare con diversi esempi quanto sia grande per il clero la vergogna e lo scandalo derivante dalle tenebre dell'ignoranza e della mancanza di letture”. (Giraldus Cambrensis, Gemma Ecclesiastica, II, cap. 35 [Enormitatum exempla quae ex imperitia sacerdotum et illiteratura proveniunt] ed. London 1862). Concludendo: “L'errore dell'amanuense diventa comprensibile se si considera che l'uso di lasciare uno spazio tra le parole è un'acquisizione recente. Non tutte le lingue lo fanno: il cinese e il gioapponese moderni ad esempio scrivono i loro testi senza nessuna interruzione. Gli spazi non vennero usati in latino fino al 600 d.C./800 d.C. circa. Al loro posto si usava il punto mediano”. Svelato il busillis non ci resta che riempire i calix di latina memoria.

La Lucertola Ribelle di un Domaine del Rodano


Prima, Rosé, Domaine de l’Anglore.

Questo vino estremamente naturale, no filtrazioni, macerazione carbonica a grappolo intero, si presenta con un rosato intenso… anche in etichetta. Anzi, nel packaging i particolari di stampa sono proprio rossi. Rossa è la lucertola che alberga al centro dell’etichetta e che sicuramente sta a rappresentare la biodiversità, insomma la presenza naturale di tutti gli elementi spontanei della fauna e della flora in vigna. Rosso è il nome del vino, curiosamente in italiano, “Prima”, forse ad esprimere il primato della natura sul lavoro dell’uomo. Rosso è il nome dell’azienda, “l’Anglore”, e le scritte di legge alla base dell’elaborato. Bella la carta leggermente goffrata, cioè ruvida la tatto, a sancire una certa manualità che ancora oggi contraddistingue il lavoro di questa cantina: raccolta a mano, lavorazioni artigianali dall’inizio alla fine. E il vino? Ruvido anch’esso, non potrebbe essere diverso. Appartiene a quella categoria di prodotti enologici che vuole essere “anomalo” per definizione, ribelle, ancestrale, scapestrato, anticonformista, mettetela come volete, ma state attenti alla volatile (che non è un uccello, ma il modo in cui i sommelier definiscono quello spunto acetico che a molti dà proprio fastidio). Pace e bere.

Un Folle Unicorno Fattore Primario di Felicità


Iunicorn, Blend di Bianchi, Valchyara.

Una delle più strane etichette da annoverare in questo blog. Un packaging colorato, variegato, fantasioso e anche, come piace a noi, un po’ folle. Ma vediamo di cosa si tratta. L’azienda, che sviluppa il proprio business sulle colline di Ivrea, è a conduzione biodinamica e produce un numero davvero limitato di bottiglie/anno. Ad esempio per questo bianco rifermentato si parla di 4500 pezzi al massimo. Il vino viene ottenuto con un mix di uve bianche autoctone che maturano a 470 mt/slm (tra le quali primeggia l’Erbaluce, vitigno tipico di quelle zone). Il nome del vino è Iunicorn (sì, con la “I” iniziale) e in pratica l’illustrazione lo conferma, proponendoci un unicorno rampante con tanto di radiografia interna. Quello che vediamo sono in effetti gli organi interni del fastastiloso equino cornudotato: il suo scheletro accompagnato da elementi vari, descritti con delle didascalie. Leggiamo tra gli altri: Cuore Felice, Polvere di Stelle, Onirismo (s. m. [der. di onirico]. – Nel linguaggio medico e psichiatrico, con accezione generica, attività psichica che si svolge in condizione di oscuramento della coscienza, con caratteri analoghi a quelli del sogno - Treccani). Sembrerebbero delle “istruzioni per essere felici”, tra le quali viene logicamente incluso il consumo di questo vino. Anche il nome dell’azienda è curioso: Valchyara, con quella insolita “Y” e lo strano modo di scriverlo in etichetta con “ara” separato dal resto. Infine, la Viticoltura Eroica è compresa nel prezzo. Evviva.

Un Mora Creativa e Sognante per un Salento Rilevante


Mora Mora, Malvasia Nera, Paolo Leo.

Le estrose etichette di Paolo Leo si riconoscono subito sullo scaffale. E generano curiosità a tavola. Questo vino che si chiama “Mora Mora”, in primo luogo è originale per il vitigno che lo compone, una Malvasia Nera del Salento che non si trova spesso tra le proposte enologiche d’Italia. Originale anche l’etichetta con una somma di particolari che la rendono unica e distintiva. Quello che l’occhio coglie in prima battuta è il viso di una donna. La forma dell’etichetta segue il profilo della testa chiomata generando una insolita, quindi sinuosa, struttura. Veniamo ai particolari “artistici”. La donna (mora di capelli) ha le gote dorate, evidenziate da due cerchi geometrici. C’è anche del viola tra i suoi capelli. Colore che ritroviamo nel nome del vino, dove la prima “Mora” è in viola e la secondo “Mora” in oro. Labbra molto rosse e all’orecchio destro una mora stilizzata. In basso, dopo le scritte didascaliche di legge, vediamo quello che potrebbe sembrare un QR Code, mentre si tratta del logo/stemma del produttore, seguito da nome e cognome dello stesso. Nel complesso si tratta di un packaging che possiamo definire molto creativo. I buoni auspici per un successo di vendita ci sono tutti.

Un Vino Molto Vivo con un Nome Mortifero


Morta Maio, Niellucciu, Antoine Arena.

Certo che in Italia il nome di questo vino potrebbe essere male interpretato. O come minimo considerato come porta sfortuna. Ma tant’è che il naming in questione deriva da questioni topografiche e storiche, facendo riferimento alla vigna dove cresce la vite che dà vita a questo vino rosso della Corsica. Siamo nella Aoc “Patrimonio”, una della più celebrate e preziose dell’isola francese autonomista che conserva ancora oggi molta italianità (anche nei nomi o cognomi dei produttori, che in questo caso è Arena). A parte il nome, siamo di fronte a quale tipologia di etichetta? Molto classica. Con caratteri di scrittura corsivi, graziati, eleganti e “romantici”. In alto due “A” rappresentano le iniziali del produttore. Nome e cognome che viene riportato in chiaro e molto in grande al centro del packaging. Poi la dicitura dell’Appellation (il francese per dire Denominazione). Per il resto scritte centrate, ordine ed eleganza, con il vezzo di una fustella (la forma della carta dell’etichetta) smussata diagonalmente ai quattro angoli estremi. Il risultato è una percezione di qualità, di storicità, di serietà, di tradizione, che è sicuramente quello che vuole trasmettere l’azienda. Produzioni limitate, vino “naturale”, prestigio (a un costo abbastanza elevato) e notorietà tra gli intenditori.

Un Passito d’Altri Tempi, Ancora Oggi


Chiarello di Cirella, Adduraca (Duròc).

Ci sono vini di un tempo (che a quel tempo sono rimasti) che quasi non avrebbero bisogno di etichette. Se non quelle antiche, che il marketing non lo hanno mai conosciuto e considerato. Come questa, che veste un passito molto particolare e raro, che viene dalla Calabria. Ma vediamone brevemente la storia (dal sito “il Calice di Ebe”): “Un vino dolce, profumatissimo e prezioso amato dalle corti rinascimentali e dal Papa Paolo III Farnese: ripercorriamo la storia e la fortuna dell’antico nettare di Cirella, il Chiarello. I Romani la chiamavano Cerillae ma la sua è una storia più antica: nata in epoca magno-greca, Cirella fu una colonia focese fondata tra il VII e il VI secolo a.C. Plinio il Vecchio la identificò come Portus Parthenius Phocensium, ovvero il Porto Partenio dei Focesi perché all’epoca l’abitato si estendeva sulla costa intorno al porto, luogo in cui oggi si trova grosso modo l’attuale CirellaDi fronte si trova l’Isola di Cirella, una delle poche della Calabria assieme alla vicina Isola di Dino a Praia a Mare (Cs)”. E ancora qualche informazione sul vitigno che compone questo vino: “Viene descritto come un vino giallo dorato e profumatissimo, dolce e molto prezioso; si ricavava quasi sicuramente dalle uve di adduràca che in dialetto locale significa ‘profumata’. L’adduràca, in italiano duraca, è un vitigno autoctono assai antico sul quale sono stati effettuati recenti studi genetici per determinarne l’origine”. Nient’altro da aggiungere se non che questa etichetta sta bene così. Si porta dietro tutta la storia di questa piccola e preziosa eccellenza d’Italia.

Un Rosso tra i Bianchi, in Terre di Tufo


Peperino, Sangiovese e Merlot, Teruzzi (Terra Moretti).

Le etichette di questo produttore toscano sono tutte molto fantasiose, soprattutto per quanto riguarda l’illustrazione molto colorata che si trova al centro del packaging. Il territorio è quello di San Gimignano, in una Toscana, saggia, storica, tradizionale, ma anche ridanciana. Il vitigno sovrano di quella zona è la Vernaccia, ma in questo caso stiamo parlando di una bottiglia di rosso. Il vino si chiama “Peperino” e potrebbe sembrare facile intuire cosa può aver spinto il produttore ad assegnare questo nome che secondo lo “slang” popolare italico di solito rappresenta una persona particolarmente vivace. Ma se si approfondisce la ricerca si scoprono cose interessanti (Enciclopedia Treccani): “Si dà il nome di peperino a certi tufi vulcanici in rapporto con magmi potassici, costituiti da un impasto di ceneri, di color grigio, macchiato di nerastro. Contengono abbondanti minerali (leucite, pirosseni, sanidino, plagioclasî, biotite e numerosi altri silicati), in individui isolati o, più spesso, in aggregati di varia costituzione, nonché frammenti di rocce diverse, eruttive e sedimentarie. Spesso sono abbastanza coerenti, e allora si usano come materiale da costruzione. Il più noto peperino si trova nel Vulcano laziale, nei dintorni del Lago di Albano”. In questo caso non siamo nel Lazio ma anche in Toscana il tufo, a tratti, la fa da padrone a livello geologico. Tornando all’illustrazione posta al centro dell’etichetta, vediamo una lepre che brandisce una lancia e cavalca una conchiglia (ve ne sono di sedimentate in quel territorio) dalle sembianze umane. Un sorprendente miscuglio di elementi che definisce (o almeno ci prova a farlo) la realtà vinicola e territoriale in questione.

La Candia d’Italia (no, non Quella Greca della Malvasia)


Arual, Vermentino, Azienda Agricola il Moretto.

L’areale di produzione di questo vino riguarda la Denominazione del Candia dei Colli Apuani, compresa tra Massa Carrara e Montignoso, all’estremo nord della Toscana (e quindi all’estremo est della Liguria). Attualmente il Consorzio di Tutela del Candia e dei Colli Apuani è composto da soli 20 produttori prevalentemente a conduzione famigliare. Tra questi vi è l’Azienda Agricola il Moretto, che produce questo Vermentino in purezza che si chiama Arual. L’etichetta presenta alcuni particolari tecnici interessanti: sulla sinistra la carta è decorata in rilievo con dei riccioli che ricordano i pampini della vite. In alto lo stesso tema viene riproposto in oro dentro a un piccolo cerchio e subito sotto, sempre in oro, troviamo il nome del vino. Sotto alla dicitura di legge, Vermentino Doc, possiamo apprezzare un disegno stilizzato che rappresenta forse i Colli Apuani. Il tratto, molto dinamico, termina in alto con una stella, simbolo delle forze della natura con le quali l’uomo deve sempre confrontarsi e spesso umiliarsi. Alla base del packaging la collocazione geografica: un piccolo luogo d’Italia, ancora poco conosciuto, che grazie ai suoi vini potrà accrescere la propria notorietà ed ambire ad una crescita anche dell’enoturismo. P.S.: il nome del vino, probabilmente è dedicato a una persona di nome Laura (Arual al contrario).

Un Flusso di Parole in un Mare di Colore


Impavido, Primitivo, Tenuta Coppadoro.

Questa azienda di San Severo in provincia di Foggia decide di allestire un’etichetta un po’ diversa dal solito. Innanzitutto il colore, profondamente azzurro, che per un vino rosso è raro a vedersi. E poi il fatto che nel fronte del packaging abbiamo la descrizione organolettica del vino. In particolare questo testo è proprio la parte preminente del design. Certo, in alto, come grandezza, leggiamo in primis il nome del vino, Impavido, un nome ridondante, originale, da leader. Assolutamente memorabile. A seguire, fino alla base dello spazio a disposizione, troviamo un testo che descrive il vino, redatto con molti caratteri (di scrittura) diversi. E forse qui sta il minus di questa operazione creativa: la leggibilità. Per il resto può risultare anche piacevole poter leggere, finalmente sul fronte, quello che di solito viene relegato, in piccolo, sul retro. Un vezzo cromatico viene rappresentato da quel “rosso”, scritto appunto in rosso, che emerge nel mare colorato che fa da sfondo e dalle altre parole che compongono il “sonetto”. Alla base troviamo il nome/logo del produttore, Tenuta Coppadoro, che fa comunque capo alle Tenute Sannella (Coppadoro è di fatto il nome della contrada dove vengono coltivate le viti). Il vino è un Primitivo al 100%.

Mediamente Gradevole ma con Una Etichetta Strong


In The Middle, Pinot Noir, Fourth Wave Wine.

Questa cantina australiana lo scorso 1 agosto (2024) ha lanciato una linea innovativa di vini. L’innovazione risiede principalmente nel tipo di lavorazione che consente di ottenere gradazioni basse, attorno ai 7%. Il nome della linea di vini che si compone di un Pinot Nero (in foto), di un Pinot Grigio, di un “Prosecco” (!), di un Rosé e di uno Chardonnay, evidenzia il progetto industriale: “In The Middle”, cioè lo stare nel mezzo tra una gradazione alta e una a zero (vini dealcolizzati, che si stanno diffondendo). Le ragioni sono ben spiegate dal produttore: “In our vineyards our viticulturalists have been working hard: we have been experimenting with how to grow grapes with full-flavour ripeness but with a lower alcohol level. We then pick these grapes slightly early for a fresh, lifted style. Then some innovative blending by our winemaking team allows them to get the alcohol even lower. This new method creates a lighter in alcohol wine but with the depth and vibrancy of a bigger wine. It simply allows you to enjoy in the middle of anything!". L’etichetta è molto attenzionale: un “bollo” cromatico al centro attira l’occhio. Sulla destra una serie di affermazioni che promuovono simpaticamente il consumo di questo vino: “In The Middle of the table, In The Middle of the day, In The Middle of the afternoon, In The Middle of a pic-nic, of a party, of cooking…” e così via. Una nuova categoria di vini, quindi, i “mid-strenght”, così promossi da questo produttore: “The mid-strength wine category is going from strength to strength, and In the Middle allows consumers to enjoy a wine at lunch or other occasions with confidence in a lighter choice”. A chi piacendo.

Un Vino Sfidante, cioè Scavezzacollo


Rompicollo, Sangiovese e Cabernet, Poggio al Tufo (Tommasi).

Pare strano chiamare un vino in questo modo? Potrebbe. Ma nell’indagare i nomi è sempre bene approfondire e andare a cercare motivazioni a volte nascoste. In questo caso il produttore, Tommasi, originario della Valpolicella, ha deciso di spiegare in modo chiaro, nella scheda digitale del vino tra le schermate del sito internet, la dinamica di creazione di questo nome: “Abbiamo pensato di cambiare il nome del vigneto Rompicollo, ma quando abbiamo letto il significato, “Persona sempre pronta a gettarsi a capofitto in sfidanti iniziative o bravate…”, l’abbiamo interpretato come un portafortuna per iniziare il nostro primo progetto vitivinicolo in Toscana nel 1997. Il vigneto Rompicollo è certamente diventato l’origine di uno dei nostri migliori vini quotidiani. Rompicollo è un blend di Sangiovese e Cabernet Sauvignon dalle vulcaniche suole di tufo nella campagna di Maremma attorno al borgo antico di Pitigliano. Un rosso rotondo e avvolgente con un bouquet irresistibile, ti trasporterà negli aromi ed emozioni della iconica campagna toscana”. Analizzano visivamente questa etichetta possiamo aggiungere che sono apprezzabili gli inchiostri in rilievo del nome della tenuta, in nero, Poggio al Tufo (a Pitigliano, sede dei vigneti, il tufo la fa da padrone geologico) e del disegno in oro (una specie di timone/rosa dei venti). In basso il logo, una T circondata da degli allori, e il nome del produttore. Il rosso (mattonato) del quadrato centrale attira l’attenzione e fa da richiamo sullo scaffale.

Il Guardiano di Salina, tra Sole, Vento e Mare


Il Guardiano del Faro, Nerello Mascalese, Cantine Colosi.

Questa premiata cantina siciliana (Colosi è il cognome di famiglia) che coltiva e produce a Salina (a Capo Faro e Porri) ha messo in campo una serie di etichette molto colorate e molto… ben illustrate. Prendiamo ad esempio quella della bottiglia di Nerello Mascalese che si chiama “Il Guardiano del Faro”, scrive a tal proposito il produttore nel proprio sito internet: “Il nome prende spunto dalla posizione del vigneto in cui le uve sono coltivate in una piccola e selezionata particella, la 523, che si affaccia sul promontorio di Capo Faro con il suo antico faro…”. Il disegno, con colori molto accesi, raffigura un uomo con barba, il guardiano, e sullo sfondo un faro illuminato assediato da onde burrascose. Siamo nelle Eolie, di fronte a Milazzo, nella Sicilia di Nord-Est, dove il sole e il vento la fanno da padrone, ma anche il mare fa sentire la sua voce e la sua influenza climatica nelle coltivazioni. Nella parte alta dell’etichetta troviamo il logo/nome del produttore, mentre nella parte bassa il nome del vino, già citato, e alla base la precisazione “Prodotto a Salina. Isole Eolie”. Una fiera affermazione territoriale di un arcipelago davvero unico al mondo, sia come conformazione sia come geologia. Nascono vini selvaggi ma sapientemente “governati” dall’esperienza umana nel far maturare le uve e nel trasformarle in nettare esclusivo: lo spazio coltivabile è davvero esiguo e infatti di questo vino si producono soltanto 3500 bottiglie ogni anno.

Terra, Mani, Mare e Tradizione a Cirò Marina


Mani Contadine, Rosato, Tenuta del Conte.

Siamo in Calabria, nel lato che si affaccia sul Mar Ionio. Esattamente a Cirò Marina, dove la tradizione della viticoltura è stata portata dagli Antichi Greci. Questo raccontano gli anziani e le testimonianze storico-morfologiche del territorio. Questo vino viene prodotto dalla famiglia Parrilla, 15 ettari oggi gestiti dai figli del fondatore Francesco. Una volta solo conferitori, oggi fieri produttori. Agricoltura biologica, equilibrio ambientale, per una serie di etichette che parlano di genuinità. Soprattutto questa, che veste un rosato da vitigno Gaglioppo 100%, e che si distingue per un nome del vino molto diretto e significativo: “Mani Contadine”. Pochi dubbi sul significato, confermato da una illustrazione che mostra due mani da viticoltore nell’atto di frantumare una piccola zolla di terra. La carta sulla quale è stampata l’etichtta è di quelle “preziose”, goffrata, in rilievo al tatto. Ma tutto il resto parla di una ruralità ancora intatta. E di semplicità, anche per il packaging: pochi elementi, molto evidenti. Un messaggio diretto e facile da interpretare. Alla base la dicitura “rosato” e il nome/logo dell’azienda: Tenuta del Conte.