Croma su Croma, Roma per Toma

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Barolo, Mario Marengo.

Cosa può spingere un’azienda nel generare un’etichetta poco leggibile? La conservazione della tradizione? Lo status-quo dell’imprimatur generazionale? O anche: se l’etichetta in questione è pre-esistente (perché ad esempio i nonni la commissionarono al tipografo del paese di un secolo orsono e quindi le tecnologie non erano quelle attuali) perché non modificarla in modo da renderla più comunicativa, più empatica, semplicemente più fruibile? Non sappiamo. Possiamo solo mostrare questa etichetta, di un prestigioso vino, di una piccola ma stimata azienda famigliare, che evidenzia delle lacune in fatto di packaging che sarebbero facilmente correggibili, anche senza snaturare lo stereotipo. I vini in questione non hanno nome, ma questo è comprensibile per l’area del Barolo che fa gran nome da sé. I nomi dei cru sono i realtà i veri nomi dei vini (dove apponibili), come Bricco delle Viole o Brunate.
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Il fatto è che sono in molti i viticoltori che possono citare queste zone vocate in etichetta. Quindi la distinzione, oltre alla qualità del vino, la dovrebbe fare l’etichetta. Distinguersi e farsi leggere, farsi capire, facilitare il ricordo, imprimere un “timbro” mnemonico, costruire su un marchio (spesso in queste zone il cognome della famiglia, ma pur sempre un marchio). In questo caso il nome della famiglia produttrice è scritto molto in piccolo, in oro, su sfondi ocra o gialli. Quel poco colore che si intuisce nella scritta “Barolo” e nel nome dei Cru, è cromaticamente molto simile allo sfondo. E siamo da capo. Per il resto, cornici arcaiche, impaginazione elementare, particolari che si perdono. L’unica nota di personalità viene data dalla scritta in rilievo “Albeisa”, nella parte superiore del vetro della bottiglia, imposta dal Consorzio, anni fa, a tutti i produttori, in modo da potersi distinguere da altre realtà vinicole italiane. Ma anche i singoli dovrebbero fare qualcosa di evolutivo.