La Pitturina, Bonarda Ferma, Poggio Rebasti.
Crediamo di essere proprio di fronte a una etichetta senza possibilità di appello. Le motivazioni sono diverse ed evidenti. Ma vediamo di analizzare il tutto in ordine “di apparizione”. In alto vediamo il logo del produttore, “Poggio Rebasti” (cognome di famiglia), un logo ovale, stile anni ‘60, piuttosto anonimo, simile a molti altri, insomma senza gloria né memoria. Al centro dell’etichetta c’è un disegno, accennato, quindi molto approssimativo, che rappresenta un grappolo. Non riusciamo a definirlo artistico, diciamo che non riesce a conquistare l’attenzione, anzi, esteticamente sembra essere deficitario, senza velleità dal punto di vista creativo. Alla base del packaging ecco il nome del vino, “La Pitturina”. Leggiamo la spiegazione offerta dall’azienda nel proprio sito internet: “Col termine Pitturina si identifica un vigneto che da sempre produce uve nere atte a dare vini rossi di qualità caratterizzati da ottima struttura e dall’intensa carica antocianica da cui il nome della vigna. Il colore di questo vino è talmente intenso che i nostri padri dicevano che ” poteva essere utilizzato per pitturare”. Il senso c’è: un vino molto denso, scuro, cromatico, come un inchiostro. Ma la definizione che origina dalla parola “pittura” non è certo elegante. Un diminutivo che sminuisce. Possiamo dire che si fa capire, ma anche che non aggiunge spessore comunicativo all’insieme. Attorno a questi tre elementi una semplice cornice a riquadrare (anzi, a “rettangolare”) il tutto. Non c’è infamia, ma nemmeno possibilità di lode.