Gioè, Amarone della Valpolicella, Santa Sofia.
Nell'appassionato testo di accompagnamento alla pagina di questo vino, nel sito dell'azienda, si legge: “Cinquant’anni fa, nel 1964, ho avuto l’idea di produrre un vino di qualità realmente superiore, che abbinasse ad una stoffa poderosa i profumi più eleganti e la morbidezza del gusto. Da allora, solo 17 volte si sono ripetute le condizioni stagionali e microclimatiche indispensabili alla maturazione delle uve che danno vita al Gioè”. Il nome “Gioè” indica la parte superiore del colle Monte Gradella, zona di produzione storica dove l'azienda coltiva i propri vigneti. Siamo quindi di fronte a un caso come molti altri, dove la toponomastica perde il "topo" e diventa "nomastica", cioè, a parte gli scherzi, diventa nome di un vino. A volte questo succede in dialetto, a volte andando a riprendere nomi di luoghi che ormai conoscono solo gli anziani del paese, a volte scrivendo semplicemente nomi di frazioni o paesi dei quali l'Italia enogastronomica è ricca. In questo caso ci sta anche una piccola critica (oltre al fatto che chiamare un vino con il nome di una località è spesso limitante): Gioè somiglia molto all'intercalare popolare "Cioè". Anche in lettura, naturalmente. Cioè (appunto) osservando l'etichetta da lontano, oppure sentendo questo nome pronunciato sfuggevomente e prendendo quindi un "Gioè" per un "Cioè". Niente di male. "Cioè" potrebbe essere anche un nome simpatico. Un po' sminuente per un Amarone, ma simpatico. Sta il fatto che qui l'intento del produttore potrebbe essere deviato da una problema di comprensione (G vs C) e quindi di "diffusione".