Un Successo di Originalità su Tutta la Linea
Il Mito di Xanadu è Arrivato Fino in Australia
Xanadu, Chardonnay, Xanadu Wines.
Un nome che è subito magia. Nome del vino e della cantina, in questo caso. Un nome che evoca tanti ricordi e sensazioni, a partire dalla nota canzone degli anni ‘80 eseguita da Olivia Newton-John, dall’omonimo album per l’ugualmente omonimo film. Ma le origini di questo nome sono tutt’altro che commerciali: si tratta di una antica città mongola, capitale estiva dell’Impero Cinese attorno al 1300 (in cinese: Shangdu). Di questa letteralmente favolosa città (ma esistita davvero) parla anche Marco Polo nel Milione. Fatta edificare da Kublai Khan dopo essere diventato imperatore della Cina unificata nel 1271, si narra fosse una specie di Samarcanda, una di quelle città che per qualche secolo diventa crocevia di culture e di popoli. Simbolo di una civiltà, della sua ricchezza e del suo progredire. Certo questo nome è stato evocato e utilizzato in tutto il mondo per la sua capacità, esotica, di farsi ricordare e di poter raccontare qualcosa di “prezioso”. Questo produttore della Margaret River (Australia) l’ha adottato a pieno titolo. L’etichetta di questo Chardonnay in purezza lo riporta in modo molto chiaro, seguito dal varietale e dalla zona di produzione. Sullo sfondo vediamo un tessitura di foglie di vite e grappoli come una decorazione da antico arazzo. Un’etichetta elegante ma con garbo, senza sfarzo ma capace di farsi notare e ricordare.
Melissa, Luogo del Miele e delle Api (e del Vino Buono)
Asylia, Greco Bianco, Librandi.
Prima di parlare del nome di questo vino, è necessario rivolgere l’attenzione al nome della Doc, Melissa (che riguarda un disciplinare che ha esordito nel 1979). Ebbene, si tratta del paese dove originano le vigne di questo produttore, in provincia di Crotone, ma anche del nome di una pianta perenne aromatica che si usa per la preparazione di infusi dissetanti e calmanti. E soprattutto il nome Melissa deriva dal greco e significa “paese delle api e del miele” (mèlissa, con l’accento sulla “e”, in greco antico, è proprio il ronzante e produttivo insetto). Tutta la zona di appartenenza di questo noto produttore calabrese, che ha sede sulla costa ionica, si rivolge verso l’arcipelago greco, e quindi è sempre stata soggetta alla cultura ellenica: ancora oggi se ne ritrovano le tracce, nel dialetto e nelle usanze. Anche il nome di questo vino bianco, da vitigno 100% Greco Bianco, deve essere ricondotto alla cultura e alla mitologia greca. “Asylia” infatti è il privilegio che veniva concesso a persone o luoghi specifici, laddove vigeva una protezione assoluta. Oggi traslato nel “diritto di asilo”. E anche l’asilo dei bimbi. Un luogo benedetto e protetto, quindi, un po’ come la zona, alle spalle di Cirò Marina, dove le viti che originano questo vino trovano una condizione pedoclimatica ideale per riuscire a ottenere, in equilibrio, forza e finezza. La bottiglia si distingue da lontano per questo tono azzurro cielo sul quale trionfa il nome del vino in inchiostro dorato. A dire il vero con un carattere di scrittura poco leggibile. L’etichetta manifesta comunque una certa originalità ed eleganza, ed è buon segno.
Il Banditone Buono della Val d’Orcia
Banditone di Campotondo, blend di rossi, Cantina Campotondo.
Il nome di questo vino parla di sé, “veste” il vino che rappresenta e racconta qualcosa del produttore. Fa molte cose, come dovrebbe sempre essere preteso da un nome. “Banditone di Campotondo” è un bel nome perché attira l’attenzione, provoca: chi lo sente per la prima volta si chiede ci sarà mai questo banditone, che storia può raccontare, sarà un bandito buono o cattivo? La ragione risiede nella tipologia di vino: austero, forte, generoso, pretenzioso (in termini di abbinamento col cibo), anche un po’ violento, come si addice a un rude bandito. Ma alla fine dal cuore buono. Questo vino, per dichiarazione del produttore stesso, è l’icona di una piccola azienda toscana nata solo nel 2000, e posizionata tra il Monte Amiata e la Val d’Orcia, tra colline arcaiche e poetiche. Le produzioni sono piccole, e la passione grande. Ma veniamo all’etichetta: il nome del vino, in basso, precede la menzione della Doc Orcia. Caratteri di scrittura chiari e leggibili. Al centro, protagonista del packaging, un grande sole-meridiana che ritroviamo anche come texture sullo sfondo. La grafica è di stile classico, l’impatto comunque c’è anche se questi stilemi mancano in parte di originalità. E’ un tipico caso in cui il nome la fa da padrone. Anzi, da banditone.
Viticoltori e Artisti sulla Costa Pacifica degli Usa
The Orcas Project, vini bianchi.
Orcas Island fa parte di un arcipelago che si trova piuttosto a nord. Ed esattamente tra Seattle e Vancouver; negli Stati Uniti, quindi, al confine con il Canada. Eppure lassù c’è una storia di imprenditori e di vignaioli da raccontare. Certo, coltivare la vite sfidando le temperature più fredde può essere un azzardo. Ma in questi decenni dicono che il clima stia cambiando, per cui la sfida forse è meno… sfidante. Il fondatore di questo progetto, sostanzialmente commerciale, ha deciso di raccogliere il meglio della produzione statunitense e di veicolarlo alla vendita e alla mescita con un’idea particolare: ogni vignaiolo ha la sua produzione (allo stato attuale sono 10, tutti attivi sulla costa americana del Pacifico) e una propria etichetta, realizzata da artisti del luogo. In particolare, per la sezione vini bianchi, le immagini che troviamo sulle etichette riguardano la fauna marina, con un polpo, un gambero e un granchio (evidentemente rappresentativi di quello che si pesca e che si cucina in quella parte del Nord-Ovest). I soggetti illustrati sono molto colorati, richiamano quindi subito l’attenzione con una certa originalità. Nella parte alta del packaging troviamo due semplici scritte: nome del produttore (del progetto, in sostanza) e subito sotto l’annata del vino e la tipologia. Etichette molto “asciutte”, essenziali, ma dietro al progetto c’è un racconto, appassionante ed efficace.
Un Vino Dentro la Storia e Viceversa
Pecorino Come il Formaggio ma Arancione
Peco, Pecorino, Cantina Tollo.
La diffusione di questo vitigno si deve certamente al suo nome, “Pecorino”, che lo assimila a un noto prodotto toscano o sardo, sia pure in tutt’altra merceologia, quella dei formaggi. Questo Pecorino, quindi, diventa vino e la Cantina Tollo, grande realtà abruzzese, lo presenta con una insolita cromìa arancione scuro, in grado di attirare lo sguardo sullo scaffale. La particolarità dell’etichetta si esprime anche attraverso un lettering ricercato che isola le prime 4 lettere del nome del vitigno, “Peco”, facendole diventare il nome del vino. Quanto meno funziona a livello di decoro, visto che l’inchiostro utilizzato è bronzeo. Vi è la necessità (si è sentita, evidentemente) di esplicitare (in bianco) il nome del vitigno vero è proprio. L’effetto non guasta. L’etichetta risulta molto moderna, accattivante, funzionale, lineare, sia pure con una certa originalità. Non comprendiamo fino in fondo la necessità di ripetere (in sostanza per la terza volta) la parola “Pecorino” in sede di definizione della Doc Terre di Chieti. Certo, la legge lo richiede, ma la presenza della scritta più grande, appena sopra, poteva ritenersi esaustiva. Marchio minimale alla base, con il nome della cantina. Nel complesso una bella operazione di comunicazione, e anche di marketing, che spinge questo vitigno obiettivamente non eccelso, a livelli di percezione valoriali e con un ottimo price positioning.
Un Rosato “Mediterraneo” Molto Navigato
Méditerranée, Rosato, Rivarose.
Tra gli innumerevoli (e molto somiglianti tra loro) nomi di vini rosati oggi proviamo a commentare questo, “Rivarose”, che di fatto inganna al primo sguardo. Sembra infatti essere il nome del vino, grazie alla dimensione dei caratteri e all’inchiostro dorato e in rilievo. Insomma troneggia al centro dell’etichetta come se fosse il nome del vino. Di fatto il nome di questo rosato francese lo troviamo scritto più in basso, in modo discreto: “Méditerranée”. A dire il vero anche questo nome genera qualche incertezza giacché l’Indicazione Geografica Protetta fa riferimento alla menzione “Mediterraneo”. Insomma, decidiamo infine di chiamarlo “Rivarose”. Una ulteriore scritta in basso aggiunge preziosità: “Brut Prestige”. I francesi, si sa, sono maestri nel valorizzare il loro vini (e anche nel realizzarli, bisogna ammetterlo). Per il resto questa etichetta è ben progettata. Ci sono tutti gli elementi classici di un rosato “prestigioso” di quelli che pur non costando molto, possono portare in tavola un “allure” che aggiunge quella sensazione di ricchezza, tipica delle occasioni sfarzose, per chi partecipa alla libagione. La forma ovale del packging ben si colloca sulla forma arrotondata della bottiglia. Il grigio chiaro di alcuni elementi si sposa bene al rosa ambrato del prodotto e al rosa romantico delle decorazioni grafiche. Un bel progetto. Industriale ma ben fatto.
La Formica Ubriaca della Garfagnana
Drankante, Blend di Rossi, Maestà della Formica.
Colpisce innanzitutto il nome dell’azienda vinicola, Maestà della Formica: ne abbiamo già parlato in un altro post. Si tratta del nome di un passo appenninico che dalla Garfagnana, porta al mare (costa Toscana, provincia di Lucca). Ed è infatti una questione di brezze marine, la qualità di questi vini. Il mare infatti si trova a 20 km in linea d’aria dalle vigne. Attraggono anche altri particolari di questa fantasiosa etichetta, oltre al nome del produttore: sulla destra vediamo una formica che beve voluttuosamente da una bottiglia, colorandosi il corpo con il rosso del nettare (le uve che compongono questo vino rosso sono: Sangiovese, Moscato d’Amburgo, Ciliegiolo, Bonarda e anche due uve bianche, Trebbiano e Malvasia). Il nome del vino, “Drankante”, vede alcune lettere storpiate, come se la formica, ebbra, avesse delle visioni distorte. Il tutto con ironia fumettosa e goliardica. Sulla sinistra troviamo qualcosa di “tecnico” e molto intelligente: un QR code ci riporta all’etichetta ambientale. In sostanza agendo sul codice si accede alle informazioni di smaltimento di bottiglia, tappo e capsula. Il vantaggio in termini ecologici è facilmente comprensibile, il vantaggio in termini di packaging porta a un risparmio di spazio grafico (per una migliore pulizia dell’elaborato) e, sempre ecologicamente, di inchiostro. In sostanza si tratta di una etichetta simpatica ed efficace per quanto riguarda le potenzialità comunicative. Bravi.
Carnevale di Colori nei Cunicoli di Reims
Cuvée Louise, Champagne, Pommery.
Questa edizione speciale, top di gamma, del produttore Pommery di Reims, si colloca tra gli Champagne che amano, ogni tanto, uscire dallo schema classico e proporre qualcosa di “frizzante”. Stiamo parlando di forme e colori, spesso abbinati anche alla scatola che contiene la bottiglia. Ma andiamo con ordine: il nome di questo Champagne, Cuvée Louise, è un omaggio a Jeanne Alexandrine Louise Mélin, che sposò il fondatore Alexandre Pommery nel 1839 e successivamente, alla sua morte nel 1860, prese in mano la gestione dell’azienda vinicola con decisioni tecniche e manageriali che hanno fatto la storia di questa tipologia di vini e della celebre regione dove vengono prodotti. Ad esempio Madame Louise decise di acquistare 120 pozzi scavati nel calcare per creare un labirinto di gallerie dove far affinare il vino ad una temperatura costante di 10 gradi. Inoltre, seguendo i gusti del mercato, fu la prima a produrre uno Champagne Brut, cioè secco, mentre a quel tempo si vendeva ancora con un residuo zuccherino ben presente. Ma torniamo alla grafica dell’etichetta: molto colore, segni e forme sinuose, una modalità più da aperitivo che da Champagne classico. Edizione speciale. Che viene prodotta solo nelle annate migliori. Che merita quindi una livrea particolare, molto colorata, come dicevamo, e dove le tinte sono molto ben abbinate sia pure dando spazio ad un’allegria un po’ carnevalesca. Tutto sommato un prodotto piacevole che conquista l’occhio e il palato.
Un Rosato Forte e Chiaro
Rosato, Gutgallé.
Questo produttore tedesco decide di attribuire un nome in italiano ad alcuni vini della propria gamma. Tra questi troviamo il “Rosato”. Nome semplicissimo, definizione di prodotto, più che nome vero e proprio. Richiama direttamente la tipologia e soprattutto all’estero richiama italianità. I vitigni che lo compongono non vengono dichiarati nel sito internet del produttore, probabilmente si tratta di un blend. Interessante la grafica che, sia pure collocando le lettere del nome in verticale (ne consegue una difficoltà di lettura), utilizza la “O” finale come simbolo/gioco/logos. L’effetto è molto impattante, quindi genera molta attenzione verso l’etichetta. Quel cerchio grande attira l’occhio sul nome. L’espediente può funzionare. Il packaging è molto semplice. Nome color rosa su fondo bianco. Sulla sinistra però leggiamo delle parole così traducibili: “un rosé come un giorno d’estate… selvatico, stimolante e speziato, proprio come piace a me…”. Il tutto seguito dalla firma autografa del vignaiolo. Si tratta di un’etichetta che possiamo definire moderna. Fuori da certi schemi che tutt’oggi vengono utilizzati nelle regioni vinicole tedesche. Tutt’altro che classica, quindi, e di conseguenza la possiamo definire coraggiosa. Si rivolge evidentemente a un target giovane, alle nuove generazioni del vino.