Pane e Vino, Purché Anche l’Acqua sia Giusta

Acqua Giusta, Alicante, Terra Moretti.

Un vino che si chiama “Acqua Giusta” non può che incuriosire. Potremmo definirlo una specie di “negative approach” o anche un esercizio di estremità concettuali che si toccano. In realtà si tratta del nome dell’azienda che produce questo rosato, facente parte del grande impero vitivinicolo di Terra Moretti. In particolare siamo in Maremma, località Badiola, vicino a Castiglione della Pescaia. Etichetta particolare per un vitigno che in Italia si trova difficilmente, l’Alicante. Etichetta semplice ma preziosa: su un fondo crema vediamo le sagome di un cipresso e di un pino marittimo, tipici dell’entroterra e della costa toscana. Le chiome sono stampate in oro rilucente, con un effetto molto solare, che ben si sposa con il colore del vino, un rosato-salmone che invita al sorso. Un packaging sicuramente meditato, sia pure realizzato con pochi elementi che riescono però a dare spessore alla comunicazione. Certo, con un nome così si rischia di “annacquare” il vino, ma probabilmente il gioco vale la candela.

Sangiovese, Pasta e Fantasia

Pastafarian, Sangiovese, Unico Zelo.

Questa giovane e divertente azienda australiana si chiama proprio così: “Unico Zelo” e ha sede a Gumeracha, vicino ad Adelaide, sulla costa sud. Non sappiamo perché hanno deciso di utilizzare due parole in italiano, e forse non lo sanno nemmeno loro. Ma sono simpatici, sono una coppia e si chiamano Brendan e Laura Carter. Producono vini con vitigni italiani che hanno strani nomi, come questo Sangiovese che si chiama “Pastafarian”. Vediamo di capire meglio. I pastafariani, secondo Wikipedia, sono gli adepti di un “movimento religioso fondato nel 2005 da Bobby Henderson, un laureato in fisica presso l'Oregon State University, per protestare contro la decisione del consiglio per l'istruzione del Kansas di insegnare il creazionismo nei corsi di scienze, come alternativa alla teoria dell'evoluzione. Nonostante sia generalmente considerata una religione parodistica gli adepti e lo stesso fondatore (per i pastafariani “profeta”) rifiutano tale etichetta, sostenendo che "ogni affermazione che faccia pensare al Pastafarianesimo come a qualcosa di umoristico o satirico è pura coincidenza". Follia? Fantasia? Filosofia? Non ci sbilanciamo. Notiamo solo che, perfetta sintonia con il nome del vino, in etichetta vediamo alcune matasse di spaghetti (stilizzati) in un mare di pomodoro. Ce n’è abbastanza per riderci sopra e per cercare di scoprire se il Sangiovese australiano è buono come quello Toscano (e soprattutto se può essere abbinato a un piatto di spaghetti).

Soddisfazioni Vinicole che Datano Alcuni Secoli Orsono

Sudisfà, Nebbiolo, Angelo Negro.

Chiariamo subito che “Angelo Negro” non è una definizione bensì un nome e cognome. Si tratta del discendente di una famiglia di antiche tradizioni che vanta le proprie origini agricole al 1670. Di riferimenti storici è piena l’etichetta: a sinistra un angelo (bianco) espone un cartiglio con il nome di Giovanni Dominico Negro (figlio di Audino), l’avo fondatore. Al centro la trascrizione dell’estratto terreni del comune di Monteu Roero che riporta: “Al Bricco della Val d’Aiello una casa con cascina, forno, aia, orto, prato e viti consorti eredi Oddino Negro, Secondo Musso, G. Matteo Sandri, eredi Tibaldo del Tetto, Giovanni Vignola, confinante a Margherita Negro; tavole 146, vicino all’edificio, aia e prato a quarti 10: soldi 2 denari 5 vitti giornate 4, tavole 68, cioè giornate 1 in fondo verso la via comune a quarti 9 e il resto a quarti 10: soldi 7 denari 7 ½”. In basso a sinistra vediamo un’altra effige di Audino Negro con data. Passiamo al nome del vino, “Sudisfà”, che pur essendo in dialetto piemontese si fa capire e aggiunge valore. Infatti nel sito internet del produttore leggiamo, a proposito di questo specifico vino: “La prima volta che l’ho assaggiato sono rimasto sudisfà…” a firma Giovanni Negro, 1996. Il mood generale è quello di un packaging arcaico ma funzionale alla storia e al “terroir” di quel Piemonte austero che ancora oggi regna nelle percezioni di molti acquirenti.

Un SuperVino Piemontese Incartato Bene

Since, Monferrato Rosso, Cascina Valle Asinari.

Ecco un packaging particolare, non originale in assoluto, soluzioni come queste si sono già viste, ma comunque in grado di distinguersi: una carta bianca, molto consistente, avvolge la bottiglia nella sua interezza. Molto spazio, nome in grande, stile moderno. Eppure siamo in una delle zone storiche e tradizionali della Barbera. Le uve di questo vino vengono coltivate su un “bricco” che ha fatto epoca ed è ben noto ai viticoltori della zona: Valle Asinari, a San Marzano Oliveto, nel cuore del Piemonte vinicolo. Veniamo al nome del vino, in inglese, “Since”, traducibile con “dal” ma anche “dopo”. Insomma, prima e poi. Infatti sotto al nome troviamo una definizione: “Perché non abbiamo una lunga storia, ma un grande futuro”. Affermazione velleitaria, se vogliamo. Forse anche un po’ supponente. Fa parte del racconto, del concept, dello storytelling di questa bottiglia. Alla base dell’etichetta troviamo il logo aziendale. Per la cronaca la società fa capo a due noti produttori piemontesi, Borgogno di Barolo e Brandini di La Morra (50 e 50). Il vino è di quelli costosi: tiene un piede nella tradizione piemontese (Barbera) e ne mette un altro nella modalità bordolese (Merlot e Cabernet). Potremmo definirlo come un “superpiedmont”, alla moda di Bolgheri. E con i suoi 15% alcolici possiamo a questo punto chiamarlo “vinone”. Da portare in tavola con orgoglio e magari non proprio tutti i giorni.

Uva e Kiwi, ma non Solo Frutta

Chardonnay, Domaine Rewa.

Questo ottimo vino neozelandese prodotto in sole 2422 unità, ci propone un’etichetta “parlante” costituita di sole immagini. Vediamo prima le (poche) parole contenute nel packaging: “Domaine Rewa” in alto, nome dell’azienda, Chardonnay in basso, nome del vitigno e in piccolo 2021 e Central Otago, annata del vino e zona di produzione. Per il resto ci appaiono una serie di illustrazioni da catalogo naturalista, che comprendono piante, animali e altri elementi come l’indicazione del “45th” parallelo (south) e uno spicchio di luna. Osservando con attenzione si notano anche un paio di cesoie e una stretta di mano. Per quanto riguarda gli arbusti, facile intuire che si tratta di tipica vegetazione del luogo, comprensiva di un grappolo d’uva. I due animali rappresentati sono il Kiwi, uccello simbolo nazionale della Nuova Zelanda e una specie di bufalo molto peloso (ci sono anche un paio di api, a dire il vero… l’azienda, biodinamica, produce anche miele). Nel complesso questa “etichetta illustrata” fa il proprio gioco. Parla di tipicità e naturalità in modo efficace (laddove questo vino viene prodotto con un vitigno “non tipico”, bensì del gruppo di vitigni definiti internazionali): ci fa conoscere un po’ di quel territorio dove nasce questo nettare del “Nuovo Mondo”. Modalità che graficamente appare disordinata ma comunque appagante. Ringraziamo Valentina e Marco ideatori del WineClub di Home.Cooking.Milan per la preziosa segnalazione (e degustazione!).

Con l’Appassimento si Vola!

Aleggio, Primitivo, Giordano Vini.

Ogni vino necessita di un’etichetta. Questo lo sanno anche i sassi. Ne hanno bisogno anche quelli della vasta “produzione” di Giordano Vini, un’azienda commerciale che distribuisce milioni di bottiglie, in Italia e all’estero. Ed eccoci alle prese con il packaging di questo Primitivo che si chiama “Aleggio”. L’immagine in alto non lascia dubbi, stiamo parlando di aviazione. I primordi del volo, visto il modello di aereo rappresentato. Cerchiamo quindi la definizione di aleggiare nell’Enciclopedia Treccani: “Agitare le ali, volando con leggerezza”. Certo il Primitivo non è da annoverare tra i vini leggeri, ma dopo qualche calice può far volare, questo sì. Alla base della grafica troviamo il nome del vitigno e la precisazione tecnico-degustativa relativa all’appassimento. Infatti, come dichiarato del produttore nella breve frase che troviamo sotto all’immagine dell’aereo, le uve vengono lasciate surmaturare sui tralci prima di essere vendemmiate. Nel complesso, pur non avendo agganci concettuali concreti con il prodotto, questa etichetta attira l’attenzione per una certa pulizia grafica che aleggia in tutto l’elaborato. La speranza nostra e di tutti i potenziali clienti è che nel vino, all’atto della mescita, non salti fuori la “volatile” (termine con il quale i sommelier professionisti indicano la presenza di acido acetico in eccesso). Ringraziamo Monica per la segnalazione e la foto!

Bonita l’Etichetta, Bonito il Vitigno

Maria Bonita, Loureiro, Lua Cheia Saven.

Un’etichetta davvero particolare che sa farsi notare. Un volto, due occhi femminili, colori insoliti, un nome evocativo. Sono gli ingredienti di questo packaging che viene dal nord del Portogallo proprio come il vitigno, autoctono, col quale viene prodotto questo Vinho Verde. Il nome del vino è “Maria Bonita”, in prima battuta si allude alla donna ammiccante che appare a tutto campo in etichetta. Ma anche, leggendo qualche informazione su internet, all’uva che compone questo nettare, al punto che in basso, sotto al nome del vino, in portoghese e anche tradotto in inglese, troviamo la frase: “The most beautiful grape of the region”. Un’affermazione nazionalista, un orgoglio regionale, un pregio produttivo. Il vitigno è il Loureiro, coltivato solo nella zona della Vale do Lima, lungo la costa nord del Portogallo, e anche in Galizia, superando il confine con la Spagna dove però cambia la vocale finale e si chiama Loureira. Torniamo all’etichetta: insoliti colori, dicevamo, un’opera illustrativa che ci colpisce per i “pomelli” del volto della donna, color verde acido, il nome in giallo, il fondo azzurro, e quella chioma nera riccioluta che sborda, in alto, sul vetro della bottiglia. Maria Bonita ha ottenuto le attenzioni che desiderava.

Ogni Benedetta Domenica (e gli Altri Giorni?)

Domenica, Pinot Grigio, Mezzacorona.

Si tratta di una delle più note e grandi cantine italiane, Mezzacorona, che vanta un bel nome, oltre che fatturati astronomici. E stiamo anche parlando di un vitigno che ha fatto categoria a sé, con vendite stratosferiche soprattutto negli Stati Uniti. Tant’è che l’azienda ha pensato bene, per questo vino, di creare un sito internet ad-hoc, con il suffisso domenica.wine. Bello ed evocativo il nome del vino: “Domenica”. Si dà per scontato che anche all’estero la pronuncia e il significato di questo nome possano essere compresi formulato così, in italiano. L’etichetta è davvero ben progettata: caratteri di scrittura ricercati, particolari in oro, eleganza formale ma non troppo essenziale. Al centro vediamo un disegno di un costone roccioso, tipico della zona di provenienza della doc (Trentino, piana Rotaliana e dintorni), e poi una serie di parole, “stratificate” dall’alto in basso, che connotano una ricerca concettuale e verbale di tutto rispetto. In alto leggiamo una precisazione che di solito viene relegata nello storytelling e quasi mai evidenziata in etichetta: “Hand Picked”, cioè vendemmiata (raccolta) a mano (l’uva). Poi nome del vino, nome del vitigno e della doc, e in basso, sopra al logo aziendale “est. 1904” per “established” cioè “fondata”. Sotto al logo leggiamo un’altra precisazione tecnica che però può essere efficace in termini di comunicazione (soprattutto negli ultimi anni): “Sustainable Estate”, cioè un riferimento alla benedetta sostenibilità. Nel complesso una bella etichetta che concettualmente non lascia nulla al caso. Sette più.

Hashtag Langhe Nebbiolo: Modernità e Tradizione

Sapèl, Langhe Nebbiolo, Merenda Sinoira.

Questa giovane azienda vitivinicola di Novello, in provincia di Cuneo (che si chiama Merenda Sinoira, proprio così), ha scelto come logo un “cancelletto”, cioè quel simbolo a tratti incrociati che si usa per gli hashtag (parola inglese formata da “hash”, cancelletto, e “tag”, etichetta) o come comando di particolari funzioni per lo smartphone. Siamo ormai abituati a vedere questa simbologia, risulta a tutti come qualcosa di famigliare. Forse l’intento dell’azienda era quello di apparire moderni nella comunicazione. L’etichetta, governata unicamente da questo segno (più il nome del vino, naturalmente), risulta un po’ sterile. Comunque si fa notare. Diciamo che riesce a bucare lo scaffale. Per quanto riguarda il nome di questo vino (un Nebbiolo in purezza), vediamo cosa scrive il produttore nel proprio sito internet: “Sapèl è un termine del dialetto piemontese che indica l'ingresso al vigneto, all'appezzamento di terra di proprietà. Abbiamo scelto questo nome per il nostro primo vino, in quanto per noi rappresenta l'ingresso in prima persona nel panorama enologico”. La parte creativa di questa etichetta molto spartana, risulta essere la trama grafica che compone il simbolo #, praticamente l’impronta digitale di un polpastrello. Probabilmente a significare che nel prodotto si trova la mano dell’uomo oltre al contributo essenziale della natura. Un packaging insolito per la zona rurale di origine, che si differenzia con intelligenza. P.S.: la “merenda sinoira” è il tipico spuntino piemontese che si tiene verso il tramonto.

LA non è Los Angeles: Siamo nella Profonda Austria

LA, Vino Rosato, Leo Aumann.

Si tratta di un’azienda austriaca molto strutturata, con un’ampia scelta di vini in gamma. Le etichette sono tutte molto essenziali, anche piuttosto sterili, tranne questa, relativa a un rosato prodotto con uve Cabernet Sauvignon, St. Laurent e Pinot Nero. L’impronta grafica è di quelle che vogliono giocare ad essere moderne con l’uso esagerato della tipografia (dei caratteri di stampa in grande, per intenderci). L’effetto comunque è positivo, dirompente in termini di comunicazione. Stereotipato ma efficace. La bottiglia si fa notare. Manca un vero e proprio nome del vino, certo, ma nel complesso incide nella memoria. Il bollo nero sulla destra, con le iniziali del titolare, Leo Aumann, fa anche da lettera “o” nella lettura di Rosé. Le tre grandi lettere bianche creano l’effetto “rebus” che attira l’occhio e intriga il cervello. Un segmento nero separa la “r” dalla “s”, apparentemente senza senso. Da non trascurare l’effetto trasparenza al cospetto di una bellissima gradazione di rosa, del vino. Effetto ottenuto dal tipo di vetro non colorato e dalla cartotecnica (meglio dire pellicola adesiva) dell’etichetta. Un packaging tutto sommato di buona realizzazione, che tradisce velleità iconografiche già fuori moda ma ancora in grado di attirare l’attenzione.

Una Dea dagli Occhi Azzurri e dai Capelli Dorati

Dea, Erbaluce di Caluso Brut, 
Società Agr. Erbalù.

Il vitigno Erbaluce (Docg di Caluso) è da molti anni sottostimato. Piccole produzioni che riguardano vini fermi, spumantizzati o passiti (questi ultimi sono quelli della tradizione). Il nome (del vitigno) è molto bello, evocativo, sembra riconducibile alla particolare e solare trasparenza delle uve mature che generano riflessi dorati. Tant’è che questa piccola azienda di Moncrivello (unico comune della provincia di Vercelli a comprendere la Docg) ha deciso di chiamarsi “Erbalù”. Mentre il vino, anche se si può incorrere in confusione, si chiama “Dea”. Il nome è posto in basso, non molto visibile, tanto che potrebbe sembrare che il nome del vino possa essere Erbalù o entrambi. L’etichetta graficamente si fa notare, colori pastello con una illustrazione che raffigura una donna dai capelli dorati “a grappolo”, occhi azzurri, abbigliamento d’altri tempi. Il disegno è piuttosto essenziale, bensì dotato di una sua originalità. Le scritte in corsivo, dei due nomi, azienda e vino, non facilitano la leggibilità. Per il resto il packaging è ordinato, nella parte bassa, più confuso nella parte alta. Una cursiosità: le mani della Dea reggono/indicano due piccole sfere, una bianca alla sua destra (la sinistra per chi guarda) e una nera alla sua sinistra. Probabilmente il sole a la luna o più probabilmente la luna piena e quella nuova a sottolineare l’importanza delle fasi astrali per la produzione del vino.