"De gustibus (et coloribus) non est disputandum" dicevano gli Antichi Romani. In particolare, secondo Plutarco, questa frase fu pronunciata da Giulio Cesare davanti a un piatto di asparagi al burro, serviti nella casa milanese di Valerio Leone. Agli ospiti Romani il burro non piaceva, lo ritenevano un "cibo da barbari", preferendo l'olio di oliva di mediterranee fattezze. Per "sistemare" le cose Cesare pronunciò la celebre frase e placò gli animi davanti al banchetto. Ai giorni nostri e nel nostro caso, siamo di fronte a una etichetta davvero particolare: il nome Vigna Mè, tra l'orgoglio vignaiolo e l'invenzione egoica, è dotato di indubbia "originalità". Ma il problema qui sono i colori: la grafica in etichetta propone i tratti di morbide colline, nonché le parole che descrivono vino e produttore con un viola, un blu e su tutti un verde "shocking" che di fatto impedisce la lettura del nome e lascia interdetto l'occhio. Il grande Mè, che si scorge sullo sfondo, di contrappunto è grigio (o violaceo). Anch'esso poco leggibile. La capsula è verde anch'essa e lascia a dir poco perplessi. Certo che il coefficente di "notabilità" di questo vino sullo scaffale, è elevato. Bastasse questo alle quote di mercato, i colori catarifrangenti andrebbero a ruba. Invece il vino si vende ancora con il bordeaux, ad esempio, ben inteso come colore!