Materia difficile e affascinante il packaging. Semplice e complessa al tempo stesso. Cosa c'è che non va in queste etichette? Nulla a priori. Molto per gli "intenditori". Soprattutto intenditori di design. Perché il vino, dicono in molti, si vende da sé. Senza bisogno di orpelli grafici (tra l'altro costosi, lamentano i produttori di vino, come pagare un designer o ordinare una carta satinata o goffrata o dorata e così via). Ma torniamo al "giudizio universale" di queste etichette (prendiamo come esempio il Merlot della gamma). C'è tutto, dicevamo: il logo in alto, accampanato in una volta (la sommità dell'etichetta), il nome dell'azienda al centro (certo manca il nome del vino, surrogato dal nome del vitigno "Merlot"), poi l'illustrazione di un bel grappolo d'uva e quindi l'indicazione valorizzante della "Marca Trevigiana" alla base. Fatto. Finito. Venduto (si spera). La sensazione però è di inadeguatezza. Un certa semplicità che estro creativo non è: diciamo che il "problema etichetta" è stato risolto, con logica e ordine grafico. Ma i "ma" sono molti. Le etichette ben riuscite, emozionali, sorprendenti, sono altrove. E buon ultimo ci sarebbe da rifare anche il nome della cooperativa, quel "Cantina del Terraglio" che per assonanza fa molto "serraglio".