È questo il caso di una etichetta “tutto nome”. Nel senso che la semplicità, la linearità degli elementi (che si traduce in una scarsissima personalità) spiana la strada alla percezione, in primis, proprio del nome del vino, piazzato al centro, in grande, e in rosso. Questo Lagrein dell’Alto Adige, di una premiata azienda vinicola, si chiama “Rubatsch”. È noto a tutti, soprattutto in Italia, che in Alto Adige si predilige la lingua tedesca. Ne è una prova la sequela di nomi di vini locali in tedesco. Questo non dovrebbe esimere da un minimo di “controllo” per quanto riguarda l’etimo, la fonetica, la semantica dei nomi. Tenendo conto anche di quel vasto mercato che è rappresentato dal resto dello stivale. Insomma, zone commerciali di peso come Milano, Torino, Roma, Firenze e in sostanza tutte le regioni dell’altra Italia (fuori dalla provincia di Bolzano, insomma) dovrebbero consigliare una scelta dei nomi che non possa risultare a detrimento del prodotto stesso. Cosa può ricordare “Rubatsch” a una persona di cultura media e di lingua italiana? Forse il verbo “rubare”? Può essere. Vediamo allora come viene “giustificato” questo nome nel sito del produttore: “...due terzi dell’uva provengono dalla vigna “Rubatsch” a Terlano, l’altro terzo dal podere “Seehof” nei pressi del Lago di Caldaro. Rubatsch è una collina esposta verso sud-ovest e posta a 250 m slm, con terreno sabbioso formato da detriti morenici di porfido. Seehof, con esposizione verso sud-est, vista sul lago e un'altitudine di 250 m slm, presenta generosi terreni sabbiosi/argillosi nei quali si mescolano detriti calcarei e depositi morenici. Rubatsch porta finezza ed eleganza, Seehof dà struttura e potenza”. In pratica si tratta di una nominazione toponomastica, tradizionale, locale, antica che dir si voglia. Non necessariamente adatta per il nome di un vino italiano.