Colpisce il nome di questo moscato (vino dolce, dalle bollicine leggiadre, a bassa gradazione) soprattutto per la sua fonetica chiaramente dominata dalla coppia di "zeta" nel finale. Chiaro che il riferimento è "bizzoso", proprio come il saltellante (grazie alla frizzantezza) aroma di questa punta di diamante della produzione piemontese: il moscato a fine pasto è una tradizione tra Torino e Asti. Anche se, a questo proposito, il produttore nella scheda del vino in questione, nel proprio sito web, dice: "I nostri nonni mangiavano l'uva moscato con pane strofinato con l'aglio. Perché quindi limitarci a dire che questo è un vino per dolci?". Tornando al nome qui in analisi possiamo aggiungere che è lungo ma non "stanca": il guizzo fonetico finale è agevolato, incoraggiato, sospinto dalla prima parte del nome "Ghiri...", da pronunciarsi quasi in sordina, per dare poi sfogo, proprio come lo stappo di uno spumante, al "...bizzo" finale e puerilmente liberatorio. Ghiribizzo, dice Treccani, è (pensate un po', forse dal tedesco antico "krebiz", gambero) "Idea bizzarra e improvvisa, capriccio, fantasticheria...". A nostro parere significa festa, allegria, gioia, con l'aggiunta di un pizzico di pazzia, dove le "zeta" continuano a farla da padrone di casa, fino a quando, dal bicchiere alla bocca, diventano bollicine solleticanti, ma anche piacere "morbido", e soprattutto nettare divino.