Misure Umane e Decorazioni Naturali

Due Versure Bianco, Fiano, 
Tenute Martarosa.

Una pregevole illustrazione che raffigura farfalle, caratterizza due dei vini prodotti dall’azienda Tenute Martarosa che ha sede e vigneti a Campomarino, in Molise. Si sa, il Molise non è particolarmente noto per la produzione di vino (forse più per l’olio d’oliva), se non per quel Tintilia che pian piano si sta facendo conoscere anche fuori dai confini regionali. Vi sono comunque anche altri vitigni come il Fiano e il Montepulciano (d’Abruzzo) che possono generare vini interessanti. Ma torniamo al packaging di questi due vini che si chiamano “Due Versure” (Bianco o Rosso). Il nome origina da almeno due fonti: versura, in alcune dizioni del Meridione d’Italia, indica quel punto di svolta, nel campo, dove l’aratro finisce una fila e torna indietro per iniziarne un’altra. Inoltre nelle province di Foggia e Matera, indica una unità di misura della superficie agraria.
Qui siamo poco a nord della provincia di Foggia, per cui i conti tornano (in entrambi i casi). Certo è più sognante, emozionante, coinvolgente la spiegazione relativa all’aratro, simbolo antico e moderno dell’agricoltura in generale e della vita contadina. Le illustrazioni, si diceva. Molto belle, classiche certo, quasi da nomenclatura zoologica, ma anche ottimamente realizzate e in grado di strappare uno sguardo. Forse non c’entrano molto col vino contenuto nella bottiglia, diciamo che risultano puramente decorative. Ma serve anche questo. O comunque si tratta di un ingrediente del design che può essere vincente in assenza di altri stimoli visivi e concettuali.

Zelo Creativo da Nord a Sud

ZeloSapiente, Petit Verdot-Frappato-Nerello, Cà Lustra.

La storia narra di una cantina veneta, che ha sede da 40 anni sui Colli Euganei, che recentemente ha allargato (e di molto) i propri orizzonti produttivi e commerciali, acquistando degli appezzamenti in Sicilia, in Contrada Costa di Bisaccia, tra Alcamo e Monreale. Per la linea di vini siciliani, Franco Zanovello, figlio del fondatore dell’azienda che ufficialmente si chiama Cà Lustra, e oggi produttore insieme ai figli Marco e Linda, ha optato per etichette anticonformiste e anche anacronistiche. Il design infatti riporta a memorie futuriste: colori e forme sono spigolosi piuttosto che sinuosi. Ricordano le invettive marinettiane che inneggiavano a un dinamismo estemporaneo e ardito. Di fatto anche queste etichette “provocano”: stimolano l’occhio, lo attirano, lo incuriosiscono. Vediamo quindi che ogni etichetta della gamma presenta una sigla, illustrata, proprio al centro: una “Z” e una “S”. E qui si nasconde la trovata ingegnosa che vede quella “ZS” simboleggiare Zanovello Sicilia (il sottomarchio creato per la linea dei vini isolani) e anche, in questo caso, “ZeloSapiente”, il nome del vino che qui viene mostrato in alto a sinistra.
Da notare che tutti i vini della linea hanno un nome che contiene ZS: il Catarratto (con Inzolia) si chiama ZefiroSoffia, il Nero d’Avola si chiama ZeloSicano e il Grillo ZollaSolare.  Tra questi equilibrismi letterali quelli che ci sono piaciuti di più sono ZeloSapiente, dal significato profondo, concreto e comunicativo, e ZefiroSoffia, descrizione di una condizione climatica del luogo ed evocativo di “Zefiro”, nella mitologia greca Dio del vento (una brezza primaverile) che soffia da ponente (Zephyrus in latino). Insomma, sarà pure giocoso tutto ciò, ma rivela anche un pensiero a monte, un progetto pensato e ben rappresentato.

Sui Lieviti con Levità

Zurlie, Frizzante “Col Fondo”, Massimago.

Coinvolgente questo “Zurlie” del produttore veronese (in Valpolicella) Massimago. A partire dalla spiegazione del nome aziendale: dal latino “Maximum Agium”, massimo benessere. Molto interessante anche la gestione della comunicazione che vede un sito ben realizzato e ricco di idee, oggi a cura di Camilla Rossi Chauvenet, discendente della famiglia Cracco, da sempre proprietaria del complesso vitivinicolo. Ma vediamo questo vino-birra, categoria molto di moda, cioè un rifermentato in bottiglia (con tappino a corona, ma forse visti i tempi che corrono meglio usare l’espressione “in metallo”) da vitigni autoctoni (non meglio precisati). Il nome del vino, “Zurlie”, è una chiara deformazione della dizione francese “sur lie”, cioè sui lieviti. Con la “Z” iniziale fa un po’ mago Zurlì e aggiunge foneticamente un giusto brio. Nell’etichetta, oltre al nome del vino, vediamo una illustrazione ad opera di Franco Chiani, che l’autore ha chiamato “Uomo Senza Tempo”. Bel concetto, di ampio respiro, espresso con un uomo con la testa a orologio ma senza lancette, che sono state tolte, forse dall’uomo stesso, e giacciono davanti a lui appoggiate sul tavolo. Attira l’attenzione e fa pensare: due risultati allo stesso (non) tempo. Originalità e spessore. Molto bene. E infine la bella frase che nella pagina web di descrizione del vino così lo glorifica: “Le bici appoggiate, due bicchieri nascosti nello zaino, una vista mozzafiato. Una piccola sorpresa per meritarsi un bacio”.

A come Attenzione, a Tutti i Costi

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Serà, Pinot Nero, 
Vini Antonacci.

Certamente insolite le etichette di questo commerciante di vini (o anche produttore, non si capisce bene). Molto colorate. Molto “pop”. Ma partiamo dal marchio, una “A” che a quanto pare è riconducibile a tale “Aldo” (si presume, Antonacci di cognome). Vediamo cosa si legge nel sito dell’azienda: “Antonacci Group nasce dall’intuito imprenditoriale di Aldo, figura che da 35 anni è protagonista dell'affermazione di prodotti alimentari e enologici, sia overseas che sul territorio Italiano. Con l'aiuto di collaboratori esperti di settore, Antonacci Group punta a dare il massimo in quanto a qualità e servizio. La nostra sede/cantinetta si trova nel cuore dell'Abruzzo e precisamente a Penne (Pescara), da dove monitoriamo tutte le operazioni, la produzione dei nostri vini delle cantine con le quali collaboriamo, la vendita e la distribuzione. I vigneti sono situati nella zona del Loretano (Loreto Aprutino) e alle pendici della Maiella”. La “A” del marchio assomiglia un po’ a quella di Autogrill ma si può soprassedere. Vediamo quindi di parlare di packaging: l’etichetta del Pinot Nero, qui in alto a sinistra, che abbiamo preso come esempio è davvero sorprendente.
Non necessariamente in positivo. Un volto di donna ammiccante, attraversato da un paio di sfregi grafici, ci “conquista” (diciamo che guadagna la nostra attenzione) anche grazie a un formulario di tinte forti. Potrebbe sembrare la confezione di un gel per capelli. Il nome del vino è “Serà”. Optiamo per attribuirlo alla canzone “che serà, serà”, oppure a uno svirgolatura stilistica che parte da “sera” o forse da “Sara” (non si offendano le donne che portano questo bellissimo e regale nome). Qui sopra altre etichette del “Gruppo”, ugualmente, a loro modo, molto sorprendenti.la distribuzione. I vigneti sono 

Alla Fonte del Vino in Valnerina

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Fonte Farro, Grechetto, Annesanti.

Le etichette di questa piccola azienda che ha sede in provincia di Terni, in Valnerina, vicino alla Cascata delle Marmore, per alcuni aspetti sono interessanti. Si presentano con una modernità insolita per la zona e per le tradizioni locali. Vogliono quindi rappresentare un’alternativa innovativa. Ci riescono con una cartotecnica che separa l’etichetta in due quadrati asimmetrici. Lo stile potrebbe ricordare certe forme anni ‘70, qui attualizzate. La scelta dei colori è accurata. Mentre il nome del vino, un Grechetto, è discutibile: “Fonte Farro”. Logicamente “fonte” porta il pensiero all’acqua, mentre “farro” a quel tipo di antico frumento ora molto in voga. In realtà “Fonte Farro” viene giustificato in questo modo, da parte del produttore: “...è una sorgente che sgorga dalla roccia, dove i miei nonni abbeveravano gli animali e si approvvigionavano di acqua potabile...”. C’entra poco col vino ma abbastanza con la storia famigliare. Nel secondo quadrato di cui si compone il packaging leggiamo il cognome del produttore Annesanti, scritto in oro, con un carattere molto particolare e spezzato in due. Leggibilità non eccellente. Sotto al cognome la dizione “viticoltore in Valnerina”: che recupera un po’ di genuinità rispetto al dinamismo dello stile grafico. In generale vediamo comunque originalità e personalità che in un’etichetta di un vino dovrebbero emergere sempre.

Stesso Nome, Senza Tante Storie

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Zerotre, 
Chardonnay e Grechetto, Ventisei.

Non stiamo dando i numeri. Questa è la storia di due giovani aziende, una di Montepulciano (recente costola della nota Avignonesi), l’altra di Orvieto, che si chiamano praticamente allo stesso modo: una Ventisei Vino e l’altra Vini Ventisei (questi sono esattamente i nomi dei dominii dei rispettivi siti web ma sulle bottiglie si firmano entrambi con “Ventisei” creando un incredibile “qui-pro-quo”). Le due aziende sono di proprietà di stranieri arrivati in Italia: la prima è di Eline Aloy, figlia di Virginie Saverys attuale proprietaria (belga) di Avignonesi, azienda nota soprattutto per il Vino Nobile di Montepulciano. L’altra è di una coppia: Michiel de Boer (olandese) e Larissa Wilson (irlandese/australiana). Risulta che le due aziende siano state fondate più o meno nello stesso periodo, attorno al 2009. Passiamo a vedere i motivi (piuttosto pretestuosi) che hanno portato le due aziende a chiamarsi così. La prima, quella affiliata ad Avignonesi, giustifica così la scelta del proprio nome: “Il giorno in cui ho compiuto 26 anni, ho accompagnato mia madre ad Avignonesi, in Toscana, per una sessione di assemblaggio di vini. Rimasi sorpresa di quanto fosse complesso creare un vino, e di come si potesse raggiungere il risultato sperato ogni volta. Per divertirmi, creai il mio piccolo assemblaggio, e fui stupita da quanto piacesse a tutti e di come fosse così genuino.
Più tardi, quella sera, festeggiando con la mia famiglia, mi chiesero come avrei ricordato il mio ventiseiesimo compleanno. Lo ricorderò per sempre come l’anno in cui feci il mio primo vino. Ed è così che nacque Ventisei”. Firmato Eline Aloy. La seconda azienda racconta questo: ”In choosing the name of our cantina; VentiSei -26- and in developing our range of wines and their respective labels, we have focused on an idea that is both modern and ancient. We have used numbers instead of names for our cantina and our wines. We have followed the ancient asian belief in auspicious numbers and we have represented them in our labels in the artistic chinese writing; 26 is a number that suggests ‘double wealth’, let’s hope that means double happiness!”. I vini di questa cantina infatti si chiamano Zerozero, Zerodue, Zerotre e Quintorosso (il numero 1 e il 4 non portano bene, nella cultura dei paesi orientali dove i due titolari hanno vissuto a lungo). Le etichette di queste due aziende sono belle, originali, animate da intenzioni e invenzioni creative che richiamano l’attenzione, ma... il problema è il nome aziendale. A parte l’identità dei due nomi, in entrambi i casi il “Ventisei” ha bisogno di essere spiegato e le delucidazioni sono considerevolmente fini a se stesse.

Al Cuore non si Comanda (alla Buona Tavola, sì)

Bianco e Rosso, Heart Collection, MonteTondo.

Due vini che “vanno insieme”. Sono legati idealmente (e nella pratica, in tavola, quando serviti in coppia) da un cuore dimezzato che affiancando le bottiglie diventa un cuore saldo, completo. Un bel messaggio, d’amore, d’unione, di complicità, di convivialità, veicolato da quello che è il “re dei simboli”, il più amato e riconosciuto, la forma grafica del cuore umano. Idea vincente quella di creare una linea (che si chiama “Heart Collection”) che affianca un bianco (Garganega 100%) e un rosso (Cabernet 80% e Merlot 20%) per creare una proposta di vini che si completano vicendevolmente, per accompagnare il menù in modo esaustivo. Ma non finisce qui. Il produttore, che ha sede in Veneto, a Soave, ha voluto andare oltre creando delle etichette con soggetti artistici, realizzate in tessuto (quella scura, del vino bianco) e in legno (quella chiara, del vino rosso). Oggi infatti le nuove tecnologie del design industriale e della stampa specializzata consentono di utilizzare non solo carte e cartoni speciali, ma anche stoffa, pietra, legno e altri materiali finora inusuali, riuscendo a garantire la curvatura necessaria per vestire adeguatamente una bottiglia. Grande attenzione quindi al packaging (e qualche costo in più, ma non esagerato) e alle emozioni che un aspetto coinvolgente della bottiglia può generare. Vista e gusto, spirito e corpo.

Merli, Merletti, Merlot (e Dolcetto)

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Merletto, Langhe Rosso, 
Azienda Agricola Chiadò Piat.

Etichetta molto semplice ma distintiva. In alto troviamo un merlo disegnato, al centro un nome, “Merletto”, e in basso le definizioni di legge. Tutto in nero e rosso su fondo bianco (molto bene: migliore leggibilità cromatica in assoluto). Ma veniamo alle questioni concettuali. Il merlo viene tirato in ballo per la presenza del vitigno Merlot, che si dice si chiami così proprio perché attira il goloso volatile dal piumaggio nero. In questo caso, nel vino qui preso in esame, abbiamo il 70% di Merlot e il 30% di Barbera. Il nome del vino è stato così formulato perché nelle prime vendemmie di questa azienda veniva aggiunto anche un poco di Dolcetto (vitigno ora destinato unicamente a un Dogliani in purezza): quindi Merlot + Dolcetto = Merletto. Un simpatico gioco di parole che funziona anche come vezzeggiativo per l’uccello dallo scurissimo manto. A parte questa curiosità, l’etichetta risulta molto visibile, a prova di scaffale affollato, grazie anche, come già detto, al colore rosso acceso del nome. Ringraziamo Giorgio Chiadò Piat, per le informazioni forniteci, sperando di poter presto accettare il suo cortese invito a Vicoforte, nelle Langhe Monregalesi, per degustare anche gli altri prodotti in gamma (il Dogliani e anche un Pinot Nero). Prosit!

C’è Ozio e Otium (e Negotium)

Colle Ozio, Grechetto, Leonardo Bussoletti.

Si chiama “Colle Ozio”, questo vino, e la sua etichetta è caratterizzata da una serie di “parole sparse”. Non ci sono altre possibili definizioni per la modalità con la quale il produttore ha deciso di occupare lo spazio a sua disposizione, sulla bottiglia, per quello che si chiama packaging. Per la cronaca l’azienda in questione si trova in Umbria e per la precisione i vitigni che compongono questo vino sono due: il Grechetto di Orvieto e il Grechetto di Todi. Ma andiamo oltre, “Colle Ozio” si diceva. Nome interessante se vogliamo scavare nella cultura mediterranea e affiancarlo quindi all’otium come lo intendevano i Romani, con un significato tutt’altro che banale. Infatti l’otium veniva considerato sempre in contrapposizione al negotium. Quindi “otium” non significa ozio, cioè il non fare nulla, come si potrebbe pensare: per gli Antichi Romani era la cura di sé e della propria istruzione, gli aspetti spirituali e lo studio. L’otium era un modo di vivere che prevedeva buone letture, meditazioni filosofiche, gusto per l’arte, esercizio fisico. Il negotium invece erano gli affari, il lavoro, cioè tutte le attività compiute per garantirsi la sopravvivenza (a quei tempi in secondo piano rispetto all’otium). Il negotium era per gli schiavi, l’otium per i padroni. L’Impero Romano inizia a decadere proprio quando cade in disuso l’otium, cioè la società del pensiero e della saggezza per fare posto alla società degli affari, della ricchezza materiale. Se invece il produttore di questo vino con “Colle Ozio” intende indicare proprio una collina chiamata così, pazienza. A noi ha dato modo di estrapolare un argomento interessante.

Arti Grafiche Raffinate nel Collio Goriziano

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Ceròu, Pinot Grigio, 
Ascevi Luwa.

È una bella etichetta questa di “Ascevi-Luwa” perché presenta caratteristiche di unicità non comuni. E anche qualche particolare da osservare con attenzione. Ma partiamo dal nome dell’azienda: “Ascevi” dicono essere il nome di una collina dove risiede la maggior parte delle vigne aziendali, mentre “Luwa” non è un riferimento al frutto della vite bensì un composto derivato dai nomi dei due figli dei fondatori: Luana e Walter. Insomma, diciamo che trovare il nome all’azienda è stato semplice. Memorabilità di questo nome? Scarsa. Passando al nome del Pinot Grigio del Collio qui in evidenza in alto a sinistra, “Ceròu”, che il produttore non spiega, cercando in rete si trova solo un fiume francese (e qualche cognome). Forse un’espressione toponomastica dialettale. Sotto al nome troviamo una menzione “furba”: Ronco Superiore. Probabilmente il nome di una località dove hanno sede le vigne.
Etichette vino etichettevino
Quel “superiore” colloca automaticamente il vino in una scala qualitativa più alta. L’illustrazione che occupa la gran parte dell’etichetta è molto bella, originale, quasi fiabesca ma con un piglio artistico che mantiene la serietà della comunicazione a livelli elevati. Alberi, una collina, una casa. Elementi comuni, in questo caso rappresentati in modo gradevole, con toni di colore ben studiati. Divertenti le nuvolette nel cielo. Valorizzanti i particolari in oro. Qui in basso a destra mostriamo un’altra etichetta di questa azienda, che merita anch’essa di essere notata per l’elaborato artistico: una donna, di spalle, fa fluire la propria chioma (azzurra!) in modo che possa sembrare un fiume o un cielo. Iconografico, emozionante, evocativo, sognante. Il vino, anch’esso un Pinot Grigio del Collio, è dedicato alla figlia dei produttori “Luana”. In questa etichetta non appare il marchio aziendale bensì solo uno stemma in alto, forse perché si tratta di un vino “fuorigamma”, per il mercato estero, che non si vuole confondere con la gamma nazionale.

Il Vesuvio Lacryma da un Occhio

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Munazei, Lacryma Christi del Vesuvio, 
Casa Setaro.

Il simbolo di questa azienda vinicola situata in Campania, a Trecase, nel Parco Nazionale del Vesuvio, è un occhio (che lacrima). Almeno così sembra osservando la maggior parte delle etichette della gamma. Alcune infatti differiscono solo per il colore di fondo, presentando sempre in primo piano “l’occhio di Dio” (o più probabilmente l’occhio del vulcano). Nel caso mostrato qui a sinistra, “Munazei” (ci sono anche un Rosso e un Rosato oltre al Bianco) è il nome di antiche costruzioni ritrovate alle falde del Vesuvio. Per la cronaca e per il design, la lacrima in questione (che è anche il nome della Doc) va verso l’alto, quasi un apostrofo, a siglare una nota positiva e non un pianto disperato.
Etichetta vino etichettevino
Troviamo altri tre nomi insoliti e belli nella linea di Casa Setaro: “Terramatta” (Aglianico), “Pietrafumante” (Caprettone, come per il Munazei Bianco, vitigno autoctono di quella zona) e “Fuocoallegro” (Piedirosso). Tornando alla forte iconografica delle etichette del “Munazei”, quello che possiamo dire è che si esprimono certamente in modo artistico (nello stile, nel trattamento), abbastanza insolito, risultando molto attenzionale, alla “prova scaffale”. Forse l’equivoco tra un occhio divino e la bocca del vulcano è voluto, tutto sommato parliamo di due entità ugualmente sovrannaturali. E si sa che il rispetto delle genti dei vulcani nei confronti dei medesimi è grande, dovuto, e in un certo senso scaramantico. Anche le altre etichette di questo produttore sono molto forti come immagine: colori di base, figure stagliate nettamente al centro del packaging. Si percepisce uno stile di comunicazione univoco e a suo modo efficace. 

Una Fontanella che Sprizza Vino

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Fontanella, Sangiovese e Merlot, Goretti.

Innanzitutto il solito problema: il marchio. Di questa cantina umbra si possono trovare ben 4 “definizioni”: Tenuta Goretti (nei testi del sito), Cantine Coretti (nell’headline del dominio), Vini Goretti (è di fatto il nome del dominio web) e infine Goretti sulle etichette dei vini. Sicuramente non è stato fatto un ragionamento unitario. Almeno fino ad ora. Passiamo alle etichette della linea “base” dell’azienda. Un rosso, un rosato e un bianco che, con cromìe diverse, presentano la medesima idea grafica in etichetta. Idea che stilisticamente non è male: una goccia formatasi in un “rivolo” dell’etichetta (un taglio, in alto, nella cartotecnica) cade in verticale a formare delle onde concentriche alla base. Forse il problema sta nel nome: “Fontanella” ove una simile accezione viene usata, generalmente, per l’acqua. 
Etichette packaging
In pratica il nome del vino e la grafica del packaging riconducono mentalmente all’acqua, a una fonte stillante. Ma il prodotto che contiene la bottiglia è indubbiamente vino. Si genera in questo modo un cortocircuito percettivo e mnemonico. Del resto l’etichetta è semplice (in questo caso si tratta di una caratteristica positiva), chiara, lineare, pulita. Contiene, come detto sopra, un’idea ben veicolata in modo originale, creativo. Salvo un piccolo appunto che riguarda la forzosa “separazione” visiva (coinvolge quindi la leggibilità) del nome del vino in “Fonta” e “nella”, divisione sia pure indotta dall’idea della goccia che cade. Manca coordinamento, sinergia concettuale, pensiero unico, nella gestione del tutto. Una globalità che sempre, per ogni settore e prodotto, sarebbe delegata a “chiudere il cerchio”.

Avanguardia Russa su Etichette Toscane

Marketing
Kappa, 
Blend di Rossi 
(Toscana Igt), Fattoria Kappa.

Il primo vino di questa giovane azienda di Castellina Marittima (Pisa), prodotto nel 2007, si chiama “Kappa” (blendone di rossi in tema di internazionalità). In questo caso non ci si riferisce alla narrativa in stile “Cappa e Spada”, cioè a quei romanzi avventurosi di cavalieri (soprattutto francesi) che vestivano mantelli (le “cappe”) e brandivano spade, qui la “K” è proprio la lettera, o meglio la proposta di una grafica del lettering in stile, questo sì, Suprematismo Russo (si dice questo in rete).
Etichette labels winedesign
Poi, nel tempo, grazie all’opera instancabile (e a quanto pare encomiabile dal punto di vista qualitativo) dell’enologo Andrea Di Maio, sono arrivati anche i vini che si chiamano “Lambda” e “Etabeta”, anch’esse lettere dell’alfabeto greco. Il fatto più evidente di questo packaging è che la rotondità della bottiglia impedisce la lettura completa di questi nomi redatti con lettere decisamente maiuscole. Per cui la sensazione è quella di essere di fronte a fonemi dalle caratteristiche gutturali. Andando oltre e prendendo in visione l’etichetta come entità di design, quello che traspare con forza quasi imperativa è uno stile che vuole essere moderno, di rottura, alternativo, avanguardista, sfrontato, ma che infine risulta poco adatto al prodotto vino, non affine, non amalgamato ad una attività, sia pure recente e gestita da giovani, che pesca pur sempre nel retaggio culturale della vite in una delle regioni, letteralmente “storiche”, d’Italia. Si vuole forse dipingere una Toscana emancipata, dimenticando che il prodotto vino rimane un terminale di desiderata tradizionalisti. E quindi lo “sparo” modernista potrebbe non funzionare a dovere.

La Vespolina di Lomellina in una Trottolina

Branding comunicazione mktg
Uinom Avalon Suliis, Vespolina, Molino Miradolo.

Non è una grolla, è di fatto una bottiglia di vino. Certo la forma è insolita per i giorni nostri, ma non lo era ai tempi dei Celti. Siamo in Lomellina dove un’azienda agrituristico-vinicola ha ripescato vicende molto antiche e design (forme) sorprendenti. Ma vediamo parte del racconto: “All’inizio del IV secolo a.C. le popolazioni celtiche portarono nella Lomellina oltre al loro dominio anche la loro esperienza e le loro tecniche agricole, con particolare rilevanza per la produzione vitivinicola. Dalle testimonianze storiche raccolte, il suo sviluppo era arrivato a livelli tali da influenzare anche le usanze romane, rendendo famoso il vino prodotto in queste terre. Il sistema di allevamento utilizzato per la produzione del Vino dei Celti era l’Arbustum Gallicum con il  quale il vitigno aveva come sostegno un “tutore vivo” che, a  seconda del terreno, poteva essere acero campestre in collina oppure pioppo in pianura più indicato, grazie alla sua estensione, a neutralizzare l’umidità del terreno. Insieme all’Arbustum Gallicum erano presenti anche viti allevate su supporto morto, secondo la tecnica delle caracatae. Le uve raccolte venivano torchiate a legna e il vino veniva conservato in grandi botti. Queste ultime erano estranee alla cultura greca così come a quella centro-italica e sembrano anch’esse legate all’esperienza celtica. In effetti questi contenitori rispondevano a precise necessità: erano più facili da trasportare, proteggevano il vino dagli sbalzi di temperatura e in modo particolare dai freddi delle regioni nordiche.
Bottiglia trottola marketing naming
Il vino veniva quindi travasato all’interno di speciali vasi in ceramica, detti a trottola per la loro forma, appositamente sviluppati dai celti di Lomellina per la conservazione del vino, come dimostrano abbondanti ritrovamenti archeologici”. Insolita la forma della “bottiglia”, insolita la bevuta in tazza, insolito e difficile da recepire il nome del vino: “Uinom Avalon Suliis” (il vino della terra che si trova tra le acque: esattamente, la Lomellina, tra i fiumi Po a Sud, Sesia a Ovest e Ticino a Est, in più attraversata dai torrenti Agogna e Terdoppio). Il latino c’è, la localizzazione anche, la memorabilità molto meno. Comunque l’operazione, tecnica e mediatica, è davvero originale oltre che ambiziosa, e in qualche modo si guadagna attenzione (il vino in questione si trova anche in una normale bottiglia di vetro, per chi teme che la “trottola” possa sfuggirgli di mano).

Quando la Langa è una Lagna

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Chardonnay, Canonica Vini.

Quando abbiamo visto questa etichetta la prima intenzione è stata quella di passare oltre. Poi è subentrata la tentazione. L’irrefrenabile tentazione di cercare di analizzare gli elementi che la compongono. Ed eccoci qua. Si nota subito una fotografia, al centro. Molte persone attorno a un carro tirato da buoi, in una vigna. Una scritta in alto a destra (una didascalia, di fatto) recita: “la vendemmia del nonno Venanzio”, testuale. Testimonianza storico-culturale che potrebbe anche piacere. Ma il meglio deve ancora venire. La fotografia è contornata da un getto di colore (a sinistra) che va a finire sul logo/nome dell’azienda. Osservando bene, si può notare una linea di separazione in oro che scaturisce da un grappolo d’uva. Con un acino di questo grappolo viene formata l’iniziale (non una “O”, bensì una “C”) di Cavalier, seguito da Cesare Canonica, il fondatore (che subentra agli avi nella più recente storia aziendale). In alto le scritte di legge e la precisazione “Vino Biologico”. Non possiamo pronunciarci sulla reale efficacia di un’etichetta di questo tipo perché non abbiamo dati commerciali effettivi. Certo che l’impatto visivo è di quelli che trasmette una certa “anzianità”, definibile anche come “arretratezza”, ove il restare indietro significa non riuscire a sfruttare (o rinunciare scientemente a farlo) le potenzialità che comunque la tradizione e la cultura contadina popolare potrebbero apportare. In questo modo si perpetuano le parti deboli di questo aspetto e non quelle positive che potrebbero incidere nella costruzione di una efficace identità aziendale.

Dal Cuore della Sicilia la Passione per la Terra

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Perricone del Core, Feudo Montoni.

Apparentemente di semplice realizzazione e di facile interpretazione, questa etichetta nasconde qualche buona intuizione. Si tratta innanzitutto di un vino “bio”. Infatti la filosofia aziendale si basa sul rispetto (anche in senso organizzativo) della natura. Una bella frase, in una delle pagine web del produttore, è perfetta sintesi di tutto il “pensare naturale”: “...un detto siciliano dice: ‘Curri quanto voi che cà ti aspetto... Corri quanto vuoi che qui ti aspetto’. E a volte mi sembra che questo possa essere quello che pensa la Terra osservando il comportamento dell’uomo”. L’uomo corre, si agita, organizza, tramesta, non si quieta... mentre la natura è sempre lì, impassibile, che lo attende al varco. Vino biologico, dicevamo. Ed etichetta “naturale”. In primo luogo la carta, molto bella, goffrata, senso di preziosità e nel contempo di genuinità.
Poi i caratteri di scrittura, arcaici quanto basta per dare una sferzata di storia e tradizione. Lo stemma in alto è accompagnato dalla dicitura “Fondato nel 1469”: giù il cappello, prima della scoperta dell’America! Il nome della tenuta, Feudo Montoni, specifica anche “del Principato di Villanova” (possedimenti aragonesi). E poi il nome del vino, che è un mix tra il nome del vitigno (un autoctono vero, il Perricone) e un nome topografico: “Perricone del Core”, a formare una definizione romantica, ma giustificata da una storia vera: “Core è il nome del cru da cui proviene l’uva. Il nome trae origine da un vigneto da sempre chiamato dai contadini del luogo, Core. In siciliano, “core” significa cuore. Infatti, il vigneto visto dall’alto ha la forma di un grande cuore”. Perfetto, si potrebbe dire accurato e accorato. La ciliegina sulla torta di questo pur semplice packaging si scorge su un lato, dove una scritta in corsivo antico recita: “...per te, Adele, strapperò le spine e pianterò le rose”. Una poetica affermazione da corto circuito mentale (via le spine, avanti le rose, ma anch’esse hanno le spine...) a firma del fondatore, nel 1967. Per finire ecco gli originali nomi degli altri vini della produzione: Nero d’Avola: Vrucara Prephylloxera (prende tale nome poiché è diffusamente presente la vruca, in siciliano è il nome di un cespuglio che spontaneamente cresce intorno al vigneto); Nero d’Avola Lagnusa (che significa “pigra” in siciliano, perché la vigna è poco produttiva); Nerello Mascalese, Rose di Adele; il Grillo (vitigno) della Tampa (irta salita, in dialetto: il vigneto ha pendenze del 70%); il Catarratto del Masso e l’Inzolia dei Fornelli (che non sono quelli della cucina, bensì delle fornaci dove si cuoceva la terracotta).