Nomi Particolari con Particolari che Contano

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Ghemme, Torraccia del Piantavigna.

Ci sono nomi (in questo caso parliamo di un nome aziendale) che spiccano in complessità, diciamo in particolarità. Non è una caratteristica automaticamente positiva. Dipende dalle parole e dalle circostanze. "Torraccia del Piantavigna" è un nome composto, per questo complesso. Piuttosto complicato anche dal punto di vista fonetico, cioè non facile da pronunciare, non scorrevole. Ha dalla sua, nel suo specifico caso, la particolarità. La "Torraccia" incuriosisce, una torre non come tutte le altre, evidentemente. Che forse nasconde qualche storia misteriosa, si potrebbe pensare. Il "Piantavigna" anche incuriosisce: si pensa a un contadino, o forse a un vignaiolo "piantagrane", chilosà. E per saperlo davvero andiamo a leggere nel sito del produttore: "Quella di “Torraccia del Piantavigna” è una storia che risale ai primi anni ’50 del secolo scorso, quando Pierino Piantavigna mise a dimora un piccolo vigneto sulle colline di Ghemme, nei pressi del seicentesco castello di Cavenago. Il nome dell’azienda, coniato molti anni dopo e ispirato alla vita appassionata che Pierino ha speso tra i filari del suo vigneto, deriva dall’appellativo “Torraccia” dato a una collina, particolarmente cara al Piantavigna, di eccezionale esposizione e di forma quasi circolare che si trova poco a nord del castello di Cavenago. La presenza della vecchia torre del castello, una vera “torraccia” a causa del suo stato di abbandono, è altro motivo di ispirazione del nome aziendale". Bene, c'è una storia, c'è il territorio, c'è umanità, e nel complesso c'è anima. Per questo il nome, sia pure "complicato", può risultare simpatico, memorabile, peculiare, originale.

O Sole Mio (sul Tanaro)

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Il Sole dei Tempi, Arneis, Massucco.

Nuova etichetta per il Roero Arneis in purezza di Massucco Wines. Siamo in Piemonte dove il sole splende (quando la stagione è valida) ma non "cuoce" l'uva (come in buona parte del sud). Il nome di questo vino è "complesso", cioè formato da più parole. Di solito si cerca di evitare questa situazione, ma a volte le formulazioni sono comunque positive. Vediamo: "Il Sole dei Tempi" allude ai benefici raggi dell'astro universale che fa maturare i grappoli, non vi è dubbio. In etichetta una raffigurazione del sole (volto femminile, ma potrebbe essere anche maschile), grande, sullo sfondo ma molto presente, conferma la "presa di posizione" comunicazionale in favore del pianeta infuocato. Potrebbe sembrare, a questo punto, un'etichetta di un passito. Spesso lo "stereotipo" delle etichette dei passiti si basa sul sole e sulle sue raffigurazioni. Ma andiamo oltre. "Il Sole dei Tempi" ha una componente aggiuntiva importante, i "Tempi". Potrebbero essere "i tempi che furono", allusione alla tradizione, ad un "saper fare" territoriale tramandato di generazione in generazione. Forse. Oppure la parola "Tempi" potrebbe alludere alla tempistica delle stagioni: il sole freddo in inverno, il sole basso ma ugualmente "attivante" in primavera, il sole cocente e maturante in estate. In generale l'affermazione (il nome) "Il Sole dei Tempi" rimane un po' sulle sue. Sospeso. Non definito. Non risolto. Funziona, perché il Sole è una di quelle parole che attizza sempre. Ma lascia quell'attimo di perplessità che impedisce una gioiosa acquisizione del nome. Etichetta chiara, graficamente solare, ripetiamo un po' da passito, con l'adozione di tre (o forse quattro) caratteri di scrittura diversi per un totale di 7 parole: anche questo un fattore di dubbio. Ma in generale "se la cava". Più o meno, 6 meno.

Sacri Luoghi e Antichi Loghi

Logo Aziendale, Brovia.

L'importanza di un nome viene affiancata e va di pari passo con la "rappresentazione visiva" di un'azienda, il logo. Spesso il nome di un produttore è il suo cognome, frequentemente il "marchio" è uno stemma antico. Come in questo caso, che si verifica nell'arcaico Piemonte, nelle storiche Langhe. Non abbiamo trovato interpretazioni documentate di questo logo che nemmeno l'azienda titolare commenta. Possiamo scorgere una corona, un sole, un cane alato, dei grappoli. Ma la nostra attenzione è stata attirata dalla frase che si sviluppa sul cartiglio sotto allo stemma, frase in latino, abbastanza famosa, tratta dai Carmina di Orazio: "Nullam, Vare, sacra vite prius severis arborem circa mite solum Tiburis et moenia Catili. Siccis omnia nam dura deus proposuit neque mordaces aliter diffugiunt sollicitudines". Questo l'originale completo che significa: "Prima della vite sacra non piantare, Varo, alcun albero alle dolci pendici di Tivoli o intorno alle mura di Càtilo: agli astemi Bacco rende ogni cosa penosa e gli affanni che ti rodono non si dissolvono altrimenti". Frase sintetizzata nel logo in esame con: "Nullam sacra vite prius severis arborem". Nulla prima della "Sacra Vite". Una affermazione di devozione nei confronti del munifico rampicante, una prostrazione riconoscente che trasuda passione per il lavoro di viticoltore. Una forte testimonianza che trasmette credibilità e competenza, nella comunicazione verso l'esterno, cioè verso clienti e appassionati degustatori.

Santi (Bevitori), Poeti, Beati (e Naviganti)

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Prosecco, Terre di San Venanzio (Fortunato).

Abbiamo qui il caso di una azienda veneta, produttrice di Prosecco, che è riuscita ad accaparrarsi il nome del Santo Patrono di Valdobbiadene (la "capitale" italiana del Prosecco). Certo un tale personaggio storico potrebbe essere ritenuto (e di fatto lo è) di appannaggio pubblico: è il Santo di tutti, a Valdobbiadene, ma "sigla" solamente questa azienda che, diciamo così, lo ha "fatto suo". Molte sono le discussioni sulle denominazioni di pubblico dominio, se queste debbano o possano essere "privatizzate" o meno. Non siamo giuristi e quindi non approfondiamo questo aspetto. Ci interessa il lato comunicazionale di questo nome. L'azienda infatti si chiama "Terre di San Venanzio Fortunato" (quindi non propriamente e non "solo" San Venanzio, c'è l'aggiunta di "Terre" che lo rende meno assoluto). E non fa mistero di questa "appartenenenza": "Portiamo il nome del Santo Patrono del Prosecco di Valdobbiadene, quel San Venanzio che fu cantore delle gioie del palato e del buon vino" recita il profilo di Twitter del produttore. Ed è un bel dire "cantore delle gioie del palato e del buon vino". Un Santo che protegge e benedice l'enogastronomia locale. In un paese ultracattolico (quanto meno nelle tradizioni) come l'Italia, un'entratura di questo genere porta consensi a prescindere. 
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E poi c'è quel "Fortunato", parte del nome del Santo, che assolutamente non nuoce, anzi! Approfondendo ancora un poco la ricerca scopriamo che: "Nel 535 circa, a Duplavilis (l’attuale Valdobbiadene in provincia di Treviso) nasce Venanzio Onorio Clemenziano Fortunato. Della sua terra e della sua gente dà notizia egli stesso nel IV libro della Vita di San Martino, quando indica nel suo poema la strada da percorrere per raggiungere Ravenna e raccomanda di passare per Valdobbiadene: “Avanza attraverso Ceneda e vai a visitare i miei amici di Duplavilis: è la terra dove sono nato, la terra del mio sangue e dei miei genitori. Qui c’è l’origine della mia stirpe, ci sono mio fratello e mia sorella, tutti i miei nipoti che nel mio cuore io amo di un amore fedele. Valli a salutare, ancora ti chiedo, anche se di fretta.” (dal sito santiebeati.it). Inoltre e in sintesi Wikipedia dice: "Venanzio Onorio Clemenziano Fortunato (Duplavilis, odierna Valdobbiadene 530 - Poitiers 607) fu uno degli ultimi autori di poesie in lingua latina, biografo di santi, vescovo, è venerato come Santo dalla Chiesa Cattolica". Per cui il Santo era anche poeta. Con il vino ci sta dentro alla grande.

Comunicare con il Cuore

packaging branding marketing comunicazioneBenTiVoglio, Sauvignon, Lodi Corazza.

Può ingannare, lo stile di questa etichetta, molto romantico, dominato da un grande cuore rosso che a quel "Ben Ti Voglio" allude in modo nazional popolare. Ci sono codici visivi e quindi comunicativi che funzionano a livello universale. Pensate alla fetta di mercato di quei consumatori, lui o lei, che vogliono portare una bottiglia all'amato o all'amata per una cena romantica. Vedono il cuore e fanno bingo. Ma qui il significato del nome del vino è un altro. Nascosto, se non esplicitato (nel sito il produttore lo dice): "Dedicato a chi, tra il ‘400 ed il ‘500, ha fatto di Bologna una capitale mondiale di studio, arti ed economia, Giovanni Il Bentivoglio, ed ai degustatori più esigenti, cultori del Sauvignon di queste colline, sulle quali ha ricordi napoleonici". E quindi passiamo rapidamente dal "nazional popolare" al "nazional culturale". Ottimo, sfacciato e sfaccettato. Il nome in generale è di quelli che attira l'attenzione. Scoprire che dietro c'è anche qualcosa di storico è molto positivo. L'etichetta, furba, con il cuore, va bene anch'essa: attirare l'attenzione con dovizia di concept e con una "copertura" territoriale è sempre un'ottima idea. Una critica va a quella piccola esagerazione che ha spinto il creatore di questa etichetta ad evidenziare, nel nome BenTiVoglio, la "B" iniziale e la "O" finale (forse a sottolineare BO, Bologna), creando confusione in lettura.
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Capoforte, Papanero, Nomitosti.

desing packaging marketing comunicazionePapanero, Lambrusco Negramaro Primitivo, Capoforte.

La Masseria Capoforte, ideata e gestita da una famiglia veneta, ha sede nel Salento, vicino a Otranto e Taranto, "terra che fu Magna Grecia e Porta d'Oriente". Vediamo innanzitutto il nome dell'azienda "Capoforte". Ebbene questa è una accezione in grado di trasmettere molti aspetti percezionali positivi: "capo" non è solo un promontorio ma anche e soprattutto qualcuno che sa "comandare" in senso buono, generoso e produttivo. E poi "forte", segno di lavoro, di volontà, di determinazione e, certo, di forza. "Forte" è anche il fortino, la fortezza, la storia, la solidità. Quante "sensazioni" in una parola. Sia pure composta (da "capo" e da "forte") ma che diventa parola compatta, ancorché breve, sinergica, impattante, costruttiva ma anche stabile, credibile, affidabile e quant'altro. Suona anche bene foneticamente, Capoforte. Inoltre è ben riuscito anche il logo, forte e compatto anch'esso, con tratti marcati e decisi. L'azienda, giustamente, con un nome così decide di non attribuire nomi propri ai vini, preferendo lasciar campeggiare "Capoforte" in prima linea sulle etichette (con i nomi dei vitigni sottostanti). Ma fa un'eccezione per un vino spumante, particolare, da vitigni Lambrusco, Negramaro e Primitivo: il "Papanero". Anche l'eccezione, l'unico nome attribuito a uno dei vini dell'azienda, è interessante. Un Papa Nero è una autorità, dove qui il "nero" è attribuibile al colore del nettare spumantizzato, composto da uva nera. Un "Papa" non tanto in senso blasfemo ma in tono carismatico. La particolarità del nome, comunque, riesce anche ad essere curiosa e memorabile, oltre che significativa. Che dire? Ben fatto!
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Possedimenti Possessivi (o Posseduti)

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Possessioni Rosso, 
Corvina-Molinara-Sangiovese, 
Masi (Serego Alighieri).

Siamo di fronte a un caso davvero emblematico. Di una nota e grande cantina veneta, Masi. Un marchio che si propone al mercato con un marketing strutturato e quindi, si presume, con una attenzione particolare per la comunicazione. Quella in etichetta innanzitutto. Il design della bottiglia appare di tipo classico "rinnovato", nulla da eccepire, anzi si nota una bella "macchia di colore" (in questo caso il bianco su nero) con linee dinamiche e attenzionali. La nostra attenzione va al nome, come spesso accade in queste cronache: "Possessioni". Al di là delle personali sensazioni (dipende da che regione proveniamo, che studi abbiamo fatto, che tipo di dialetto conosciamo, che esperienza di "lingua" italiana abbiamo, etc) consultanto la storica Treccani vediamo che la parola "possessioni" si divide, come significato, tra un arcaico senso di "possedimento" e un chiaro riferimento esoterico.
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Il primo (forse, ma non è detto) positivo, il secondo piuttosto turbativo e quindi discutibile. Ma vediamo il dettaglio, sia pure in sintesi. Possessione viene dal latino possessio-onis, derivato di possidere "possedere", part. pass. possessus. La definizione spazia da "Presa di possesso, occupazione e simili, in alcune espressioni quali: possessione demoniaca o diabolica, che nella storia del cristianesimo indica l’invasione del corpo umano da parte del demonio" a un più rassicurante "possedimento, proprietà di terre e di beni immobili, per lo più di notevole entità". E ancora: "Il termine possessione designa fenomeni abnormi dell'esperienza e del comportamento, dovuti a presunti influssi esercitati sul corpo umano da forze soprannaturali". Esaurita l'analisi "tecnica" possiamo passare a quella di conscio e inconscio, veri "piloti" della percezione. Ebbene non può sfuggire che nella generalità dei casi "Possessioni" porta ad un significato relativo a qualcosa di misterico (e diabolico) e al limite a qualcosa di sessuale-relazionale, ma ugualmente non positivo. Da notare infine che nel sito del produttore, "Possessioni" viene assolutamente inteso come voce arcaica di possedimento agricolo: "Le nobili Possessioni Serego Alighieri appartengono ai discendenti diretti del poeta Dante, e rappresentano la tenuta che in Valpolicella può vantare la più lunga storia e tradizione". La prova di una intenzione che forse non ha avuto l'efficacia attesa.

(Ri)Conoscere l'Alfabeto Richiede Tempo

packaging grafica storytelling concept comunicazioneSenzatempo, Lambrusco Emilia, Riunite.

Grandi le Cantine Riunite, in tutti i sensi. Grandi produzioni, grande marketing, grande packaging. Questo "semplice" Lambrusco da consumo quotidiano è stato vestito con accuratezza. Ma c'è un "ma". Packaging studiato fino nei minimi dettagli, è evidente: la "S" di "Senzatempo" (il nome del vino) che diventa logo, ad esempio. Ma c'è un "ma". Il nome stesso che esprime un concetto legato alla tradizione, alla genuinità, al godere della vita: Senzatempo. L'etichetta che nella grafica ricorda la carta semplice, quella che si incollava a mano sulle bottiglie. I particolari come quel "Metodo Ancestrale" scritto in corsivo in basso a destra. Ma c'è un piccolo "ma". Il design "industriale" della bottiglia è anch'esso ben progettato: con il tappo a chiusura ermetica per la conservazione del prodotto, che fa molto "campagna" e "abitudini di un tempo". Perfetto, davvero. O quasi. Peccato per quella lettera (cioè per la scelta del "lettering" in sostanza), quella "n" di "Senzatempo" che non si legge, ovvero si legge come una "o" o qualcosa d'altro e che impedisce una immediata fluidità sul nome, elemento centrale di tutto il packaging e di tutto il concepting. 

Nomi del Gaso

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Gaso, Valpolicella Ripasso, San Rustico.

Facile fare dell'ironia in "gasi" come questo. Il nome del vino è "Vigneti del Gaso", ove Gaso trattasi del nome di un antico podere di proprietà dell'azienda. Ma insomma, formulato così rischia molto in fatto di percazione. In realtà dobbiamo dire che rischiava, visto che attualmente l'etichetta è stata modificata togliendo la dicitura superiore "Vigneti del". I giochi di parole (e in questo caso come minimo si fa riferimento, appunto, alla parola "caso") sono un'arma a doppio taglio: a volte portano un sorriso, a volte scherno e costernazione. Scegliere un nome non è cosa facile e sottostare a formule legate ai nomi di famiglia o dei luoghi, quanto questi si esprimono in modo equivoco, non è una buona idea in generale. Il produttore, forse avvisato da amici e acquirenti, ha posto (parziale) rimedio, ma in rete cercando il suo nome circolano ancora le vecchie etichette con la curiosa formulazione, diciamo così, non totalmente frutto del caso. E anche così, "Gaso" richiama altri significati che con il vino hanno poco a che fare.


Donne e Botti dei Paesi Tuoi

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Barolo, Pichemej, Agricola Marrone.


Curiosa e intrigante la definizione che il produttore Gian Piero Marrone fornisce, nel proprio sito web, riguardo al Barolo "Pichemej": "Tutte le donne si assomigliano, ma non sono uguali. Anche le botti del Re dei Vini, il Barolo, si assomigliano, tuttavia alcune riescono ad evidenziarsi persino rispetto all'eccellenza delle altre. Così è per il Barolo Docg "Pichemej" cioè "più che meglio", quindi il massimo di quello che si può ottenere: magica e antica parola di nonno Pietro Marrone, per indicare la botte migliore in assoluto,
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dopo averla individuata con l'olfatto e il palato". Al di là della narrazione siamo di fronte all'ennesimo nome di derivazione dialettale. Suona bene, ma viene interpretato correttamente solo dai "locals". In più quella "j" finale gli conferisce un qualcosa di straniero. Certo esprime qualità: qualcosa che è "più che meglio" è di fatto un'eccellenza. Il Barolo è già eccellenza trai vini, questo vino punta ad esserlo nella gamma proposta dal suo produttore. Abbiamo inoltre qui l'occasione di vedere la nuova e la vecchia etichetta: in alto a sinistra l'attuale, a destra quella precedente, che forse preferiamo. È classica ma più equilibrata anche nei cromatismi. Quella nuova, con quel sole arancione e la stilizzazione delle colline nella "M" del nome di famiglia, non convince fino in fondo per gusto e memorabilità. E poi: perché ripetere due volte (sopra e sotto) "Agricola Marrone"?

Uomini Buoni (un po' Bambini) in Etichetta

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Langhe Nebbiolo, Josetta Saffirio.

La cantina di Sara Saffirio, ha rinnovato le etichette: ogni tanto un restyling generale ci sta. Le aziende vinicole hanno storie che si evolvono e racconti da rinverdire. Cambiano anche le mode, ma non è questo: il fatto è che cambia il rapporto con l'esterno e forse anche qualcosa di interiore, nel fare il vino, negli anni, di generazione in generazione, senza tralasciare la saggezza antica ma con energia nuova e prospettive ampie. Possiamo quindi fare un confronto tra la vecchia etichetta (a destra) del Langhe Nebbiolo di casa e quella nuova (in alto a sinistra). Innanzitutto gli gnomi: presenza costante nell'immagine della cantina. Presenza che nel sito aziendale viene razionalizzata con questo racconto: "Gli gnomi sono la coscienza degli uomini buoni. Ernesto Saffirio conservava un’animo di bambino, nonostante le prove cui la vita lo aveva sottoposto. Alla sera raccontava alla piccola Josetta che da bambino vedeva nel cortile della cascina di Castelletto arrivare uno gnomo con un carretto trainato da topolini. Fu così che Josetta tramandò queste favole ai suoi figli Sara e Alessio, dedicando i vini a questi personaggi del bosco che aiutano i contadini prendendosi cura degli animali e controllando la cantina, in cambio di un po’ di vino".
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Certo si tratta di un visual che trasporta la mente, anche di chi lo approccia per la prima volta e non conosce la storia famigliare dei Saffirio, a sensazioni infantili, giocose, scanzonate, elementari, spontanee. Il vino è una "cosa" seria direbbe qualcuno. Perché "giocare" con temi infantili? In questo caso gli gnomi offrono due o tre aspetti positivi: l'originalità (altri gnomi albergano sulle etichette nazionali, ma non troppo spesso), la cromaticità (attira l'attenzione) e la storia personale (quella raccontata dagli avi e fin qui trasportata e trasformata in storytellig, come si dice oggi). Notiamo l'ordine grafico della nuova etichetta, certamente migliorativa rispetto alla precedente che presentava lo gnomo più grande e le diciture un un carattere di scrittura graziato, arcaico e poco leggibile. La riduzione dello Gnomo (sembra una battuta ma è andata così) ha comunque ottenuto l'effetto di ridurre anche le sensazioni infantili e fiabesche, forse eccessive nella vecchia versione. Molto positivo comunque che il design in etichetta abbia e mantenga un gancio con la "favola" di famiglia. Purtroppo manca questo tipo di coerenza in molte etichette italiane.

Natura, Giusta Misura, Vino.

Nemesio, Malbec, Nemesio Winery.

Questo nome che viene dalla lontana Patagonia, potrebbe essere un ottimo appellativo anche per qualche vino rosso italiano, di "spessore". Non che questa sia una caratteristica totalmente positiva (il fatto, per un nome, di essere "intercambiabile", cioè di potersi adattare a vini diversi), infatti un "buon nome" dovrebbe "calzare" solo a unicamente per il prodotto per il quale viene creato. Si tratta quindi di un esempio che ci consente di fare valutazioni sulle varie tipologie di nomi. Quindi, stavamo dicendo, che questo bel nome potrebbe campeggiare con grande dignità anche su qualche altro vino carismatico. Si tratta infatti di una menzione autorevole "Nemesio". Vediamo la definizione di Treccani: "Nemèsio (gr. Νεμέσιος), filosofo cristiano (4º-5º sec.), vescovo di Emesa in Siria o d'Emisia in Fenicia. Scrisse il trattato Περὶ ϕύσεως ἀνϑρώπου ("Sulla natura dell'uomo"), di forte ispirazione neoplatonica, soprattutto nella psicologia (Nemesio ammette la preesistenza delle anime), ma chiaramente orientato come apologia del cristianesimo". Insomma si tratta di filosofie sulla natura dell'uomo e si parla di anima. Il vino ci sta dentro alla grande. Le origini, le ragioni, le inflessioni, di questo nome potrebbero anche provenire dal termine "Nemesi" che sempre Treccani definisce così: "Nèmeṡi, nome proprio (gr. Νέμεσις, lat. Nemĕsis), personificazione nella mitologia greca e latina della giustizia distributiva e perciò punitrice di quanto, eccedendo la giusta misura, turba l’ordine dell’universo". Bello questo concetto della "giustizia distributiva" e della "giusta misura" che sempre dovrebbero regnare nella vita come sulla buona tavola, vino compreso, naturalmente. E infine un po' di fonetica: suona bene "Nemesio", è morbido, rotonto, confortevole, pacato, saggio, anche senza conoscerne il significato. Per quanto riguarda il design dell'etichetta, molto classica, pulita, ordinata, si salva a livello di incisività di percezione e di comunicazione grazie a quel bollo rotondo blu che fa da "centro dell'attenzione", un bersaglio per gli occhi, che sempre nel design delle etichette dovrebbe essere presente. In un modo o in un altro. Una specie di nemesi alla quale molti produttori dovrebbero sottoporsi, viste le etichette che girano sugli scaffali italiani.

Monellerie Dialettali Piemontesi

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Maraia-Sbirolo-Servaj, Barbera-Nebbiolo-Dolcetto, Marchesi di Barolo.

Scherzi della dialettica o tipicità dialettale? In questo caso abbiamo la conferma da parte del produttore che questi tre nomi derivano direttamente da forme "autoctone" di linguaggio della regione Piemonte. Infatti il sito aziendale recita e commenta: "Maraia, Sbirolo e Servaj. Nomi che nel dialetto piemontese, identificano ragazzi ricchi di entusiasmo, di vivacità: esuberanti, estrosi e, a volte, anche un po’ monelli". In effetti sulle etichette, molto stilizzate, dei tre "fratelli", vi sono delle piccole illustrazioni che raffigurano dei ragazzi in movenze giocose, forse difficili da interprentare, sicuramente dinamiche e attenzionali. A proposito delle etichette, notiamo "pulizia grafica", gusto ed equilibrio nella distribuzione degli elementi, cromatismi sobri ma impattanti. Packaging riuscito, dal punto di vista della comunicazione. Unico dubbio, come sempre, quello sull'opportunità di adottare nomi troppo legati al territorio, cioè l'uso del dialetto puro. Certo sono nomi molto originali, non sempre facili da pronunciare per uno straniero, e forse anche per un italiano. Diciamo che il "gioco" può risultare molesto e non è detto che in termini di memorabilità il "ritorno" di immagine possa essere sempre positivo. L'orgoglio piemonese però ne esce vincente!

Nomi Antichi (e Selvatici) in Etichette Moderne.

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Enantio, Terradeiforti Doc, Roeno.

Questa azienda vitivinicola che ha sede in provincia di Verona, nel produttivo Veneto, precisa innanzitutto, nelle prime pagine del sito web, l'origine del proprio nome (marchio): "Da dove deriva il nome Roeno? Roeno è un acronimo tra Ro, dal nome del fondatore Rolando, e la parola greca enos". Non è male come soluzione: mescolare il nome del titolare con "vino" in greco: fusione di anime. Ma a dire il vero somiglia un po' troppo a "Roero" (regione vinicola del Piemonte). Andiamo oltre e prendiamo uno dei vini dell'azienda che semanticamente "pesca" anch'esso nella storia. Si tratta, tra l'altro, di un vitigno particolare, e il nome del vino lo celebra e lo sottolinea. Scrive il produttore a proposito del vino Enantio: "La storia racconta che lo storico Plinio il Vecchio, nel primo secolo d.C., parlando di viti selvatiche e coltivate, scriveva. ”La brusca: hoc est vitis silvestris, quod vocatur oenanthium…”  cioè "...una vite selvatica chiamata Enantio".

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Quest'ultima frase viene riportata in evidenza in etichetta, scritta in corsivo, non molto leggibile, ma con l'enfasi che può avere comunque una dicitura in bianco su fondo nero. Oltre a questa originalità non si può tralasciare la vista di quel pallino rosso che svolge la funzione del puntino della "i" ma anche quella funzione estetica e di design che punta a rendere il tutto attenzionale e "particolare". E nella sua semplicità alla fine ci riesce. Unico appunto che possiamo muovere nei confronti di questa etichetta è la scelta di dare maggior "peso" visivo al marchio (Roeno) piuttosto che al nome (Enantio). Ma questo spesso le aziende lo fanno intenzionalmente, alla ricerca della "Brand Awareness", oppure semplicemente per vanità autocelebrativa. La scelta su cosa deve avere la precedenza tra nome del prodotto e nome d'azienda, come punto attenzionale dell'etichetta, è materia complessa. E forse una soluzione assoluta non c'è.

Alla RIcerca dell'Arte Perduta

packaging grafica brandig comunicazioneSoffio, Chardonnay-Petit Manseng, 
Il Calamaio.

È sempre interessante assistere al passaggio da una etichetta all'altra, da una precedente a una nuova, da parte dei produttori di vino. Di solito si riesce a scorgere il loro "percorso" personale e aziendale, che non è detto sia organico e migliorativo. Ma sempre di un passaggio, di un guado, si tratta. I confronti si possono fare cercando in rete etichette "vecchie" e confrontandole con le nuove emissioni, quando esse vengono annunciate dai produttori. Twitter in questo caso è uno strumento straordinario sia per comunicare (da parte delle aziende) sia per cercare e trovare elementi di spicco in ogni settore. Il Calamaio, piccola azienda sulle colline lucchesi, dimostra agilità nella gestione della comunicazione "digital" così come grande passione per quella che è la parte qualitativa, produttiva, agricola, del vino. Il titolare è un vignaiolo di "nuova generazione", che infatti con le etichette dimostra di non essere attaccato a stereotipi "classici" che soprattutto in Toscana ancora vanno per la maggiore. Ma vediamo come e se è riuscito a creare etichette efficaci, sia pure uscendo dagli schemi. Per quando riguarda "Soffio", l'etichetta precedente (in basso a destra), sia pure fuori dalla norma, richiamava ancora codici "standard": molto "centrata", pulita, il logo scritto in carattere "graziato", unica concessione a un design "diverso", il carattere di stampa del nome. esile e sfuggente come un Soffio. La nuova etichetta è molto diversa, salvo il logo "il Calamaio" che logicamente non cambia. Vediamo forti contrasti tra bianco e nero, con una nota di colore giallo pieno per quanto riguarda il nome "Soffio" (qui sopra a sinistra, di fianco all'altra etichetta, del vino "Poiana", con un colore diverso, ma con medesimo stile). Lo stacco nero su bianco sembrerebbe
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rappresentare le colline d'origine, ottimo effetto ottico "da scaffale" anche per assicurare un certa originalità. Sotto al nome vi sono l'annata e i vitigni che compongono il vino, il tutto eccessivamente accorpato, ai limiti di una comoda leggibilità: per Soffio la necessità di comunicare due vitigni ha complicato le cose. Altra nota di critica, il colore del nome, un giallo molto "ottico": nell'intenzione di farsi notare ci sta, ma toglie eleganza e armonia al tutto. Meno criticabile il fucsia del nome dell'altro vino, "Poiana", ma risulta dirompente anch'esso. Una foglia di vite del medesimo colore accompagna i due nomi: unica nota "arcaica" insieme al carattere graziato del logo, come detto in precedenza. Nel complesso l'etichetta si può annoverare tra quelle "moderne": antagonista ma non protagonista, graficamente forte e di impatto, non totalmente integrata e armonica, non propriamente elegante (ma forse questo è voluto a livello di concept statutario), e infine non valorizzante il prodotto; gli intenditori però dicono all'unanimità che si valorizza da solo, una volta versato nel bicchiere e poi in bocca. Il vino è un'arte, fuori e soprattutto dentro la bottiglia.

Ovvietà che non Comunicano


La Cantina delle Vigne, Piero Mancini.

grafica packaging brandingLe etichette di questo produttore sardo non sono oggetto di questa breve analisi, si tratta di etichette mediamente valide, alcune anche da ritenersi interessanti dal punto di vista del design. Vogliamo in questo caso dare uno sguardo al "pay-off" dell'azienda, che accompagna il logo ufficiale. Il logo cita il titolare Piero Mancini e presenta il profilo di un uccello, forse acquatico, probabilmente presente nella fauna della Sardegna. Il pay-off recita: "La Cantina delle Vigne". Apparentemente si tratta di una affermazione coerente e accettabile, la parola Cantina accompagnata dalla parola Vigne, dipinge un quadro semantico in sinergia con l'attività vitivinicola. Ma cosa significa "La Cantina delle Vigne"? Una cantina attinente, appartenente, confinante con delle vigne?
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Lo sono tutte, in generale, le cantine di produzione vinicola, e ci mancherebbe. E poi, di quali vigne? Delle proprie, logico, ma l'eccessiva genericità dell'affermazione non giova ad una opportuna caratterizzazione. È come se dicessimo che questa cantina è una delle tante che produce vino con il frutto delle proprie vigne. Non è certo sufficente per costruire una immagine forte e incisiva.

L'Etichetta come Spartito

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A Solo, Petit Verdot, Guicciardini Strozzi.

Potrebbe sembrare un errore invece si tratta di finezza stilistica. Almeno così interpretiamo la volontà di questo storico produttore toscano che alludendo chiaramente al mondo musicale ha deciso di chiamare "A Solo" un vino rosso ottenuto da vitigno Petit Verdot in purezza. Siamo in Alta Maremma, come territorio, e certo il Petit Verdot non è un autoctono, ma dicono che si "esprime bene". Torniamo "all'assolo" che Treccani spiega così: "Composizione, o parte di essa, eseguita da un solo esecutore (vocale o strumentale), isolato da una massa corale o strumentale. Si chiama anche semplicemente 'solo', e 'solo' è la didascalia musicale corrispondente". L'etichetta sottolinea graficamente l'adozione del mondo musicale con uno spartito al centro (dove si vede una nota solitaria) e anche, forse ridondante ma decorativa, una tastiera alla base del rettangolo. Un'etichetta classica con una "iniezione" concettuale coerente con il nome prescelto. Volendo filosofeggiare un po', per quanto i grandi soloni ci concedano di farlo per una semplice etichetta di un vino, possiamo dire che sempre il packaging può essere come uno spartito vuoto (in partenza) dove le note, di design, semantiche, grafiche e concettuali, compongono la "sinfonia comunicativa". Certo, serve un bravo compositore!


Vandalismi Concettuali

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Vandalo, Nero di Troia, Tenuta Cocevola.


Si parla di vandalismo quando la cronaca riferisce di danneggiamenti "gratuiti" al bene pubblico o privato. La Treccani nello specifico ci erudisce sulle origini di questo lemma: "Appartenente all’antica popolazione germanica dei Vandali (v. vandalico), che nei paesi invasi perpetrarono stragi feroci e selvagge distruzioni". E ancora: "Individuo che, senza alcuna motivazione ma solo come manifestazione di violenza, per gusto perverso o per ignoranza, devasta e rovina beni e oggetti di valore, e soprattutto monumenti, opere d’arte". Nel caso che si presenta ai nostri occhi sotto forma di etichetta di vino pugliese, sembra proprio che i vandali si siano spinti fino a sud. Tanto da indurre il produttore a citare questo popolo invasore sotto forma di nome di un vino. Il nome si presenta forte, impositivo, ma non "in positivo" giacché l'accezione "vandalo" ha di fatto acquisito valenze negative nel linguaggio comune. Quale potrebbe essere il "valore" semantico di un vino che si chiama "Vandalo"? Forse il suo essere selvaggio? Quindi in un certo senso genuino? Pericoloso percorso concettuale che rischia di provocare un cortocircuito comunicazionale.