Questa cantina spagnola che ha sede e produzione nella celebre zona di La Rioja ha dedicato una intera linea di vini alle... caviglie delle donne. Girando l'argomento in modo più romantico e sensuale diciamo che queste originali etichette sono dedicate all'eleganza e all'attrazione che ancestralmente la femmina esercita sul maschio. Notiamo subito che nell'etichetta è intagliata al vivo la sagoma di una gamba di una donna che indossa una scarpa col tacco molto alto. La connotazione è subito quella della festa, del party, della celebrazione, della serata. E visto che siamo vicinissimi a Capodanno ci possiamo facilmente immaginare una situazione del genere con molti vini in "scaletta" e una convivialità di uomini e donne che hanno voglia di notare e farsi notare, con un pizzico di provocazione in più. Il nome del vino conferma: "Tentaciòn". Facilmente traducibile dallo spagnolo. La tentazione di un vino attinente (alla cena che si sta performando) e di persone attraenti (con l'usilio di qualche calice che, si sa, abbatte qualche ostacolo di troppo). Tornando prettamente alla tecnica visiva, l'etichetta risulta particolare, eloquente, intrigante, coinvolgente. Insomma si fa notare proprio come una bella donna che in più ha indovinato il giusto paio di scarpe. Astenersi feticisti.
Uno Zingaro Siciliano Metà Arabo Metà Francese
Nawàri, Pinot Nero, Duca di Salaparuta.
Gli esperti e anche i meno avvezzi sanno che il Pinot Nero, Noir, secondo i nostri cugini d'oltralpe, trova la propria espressione di vera eccellenza solo in Borgogna, regione centrale e collinare della Francia. Ma in realtà ci sono altre aree nel mondo e quindi anche in Italia dove questo vitigno riesce ad esprimersi ugualmente bene. In Sicilia, sulle pendici dell'Etna, la nota casa vinicola Duca di Salaparuta coltiva, nella vigna Vajasindi (nome locale), uve di Pinot Nero per produrre due vini: uno di questi si chiama Nawàri. Nome che attira subito l'attenzione per la sua stranezza: non sembra dialetto, non sembra italiano. E allora come succede spesso in Sicilia bisogna cercare nel mondo arabo, e infatti questo nome risulta essere la traduzione dall'arabo di "Zingaro". Il senso è che il Pinot Nero, come uno zingaro girovago, ha trovato casa anche in Sicilia, trovandosi decisamente bene, su un terreno, come quello che circonda il cratere dell'Etna, quasi interamente vulcanico. Serve aggiungere che tra le caratteristiche del Pinot Nero vi è quella di non adattarsi a tutti i terreni e a tutte le condizioni pedoclimantiche. Si trova bene sono in alcune zone. E lì stabilisce legami con l'uomo e logicamente con la natura. L'etichetta di questo vino, graficamente, è molto pulita, semplice, ma offre particolari di spicco, come il logo relativo alla Tenuta di Vajasindi (quasi una co-marca, rispetto a Duca di Salaparuta) che viene espresso da una "V" in rilievo impressa con inchiostro dorato. Così come una attenta cura e scelta dei caratteri di scrittura di tutti gli elementi verbali del fronte-etichetta. Chiarezza ed eleganza che presentano il prodotto in modo eclatante ed efficace,
Nomi di Vigneti che Diventano Nomi Internazionali
Shiarà, Catarratto, Castellucci Miano.
Si tratta di un caso abbastanza comune di trasformazione di nome di luogo in nome di vino. E mentre l'annosa questione di come si scrive il nome del vitigno Shiraz (Syrah, Sirà, etc.), in questo caso Shiarà nulla c'entra anche perché il vitigno in questione è bianco ed è esattamente il Catarratto. Il nome di questo vino che nasce a quote alte (da 800 a 1000 mt s.l.m.) sulle Madonie, alle spalle di Palermo, in Sicilia, deriva dal nome della zona, della collina vinicola locale che si chiama "Sciarazzi". Ne deriva una specie di forma dialettale troncata, che somiglia molto a certe accezioni arabe che in Sicilia ancora albergano nelle locuzioni enogastronomiche anche di uso quotidiano. Ed ecco che, grazie anche all'ottima fonetica, alla brevità, al "fascino" del suffisso "sh" che rende il tutto un po' magico e fiabesco, oltre che vagamente internazionale, nasce un nome che è in grado di essere tale a tutti gli effetti, come memorabilità e carisma. Della grafica in etichetta si può dire che: sullo sfondo scuro, antracite, risalta molto bene il nome in carminio. E che in generale questa etichetta si può definire elegante. Migliorabile la leggibilità (ora in inchiostro argento fin troppo specchiante) del logo in alto, che risulta comunque di ottima realizzazione e sintesi (CM, iniziali del nome aziendale e grappolo stilizzato sotto al nome stesso). Aggiungiamo che il vino, commercializzato in soli 13 mila esemplari, viene ritenuto, dalla comunità di esperti assaggiatori, una delle eccellenze siciliane.
Gli Scherzi della Toponomastica
L'azienda vinicola californiana (a nord di Santa Barbara) che produce questo vino (e molti altri in gamma) si chiama "Topa Mountain" ed è stata fondata da un imprenditore di origini italiane, Lauro Guerra. Sarebbe facile fare della (facilissima) ironia e allora, quasi quasi ce lo permettiamo. In pratica: non sarebbe necessario scomodare qualche toscano per sapere a cosa fa riferimento, gergalmente in Italia, la parola "topa". Chi la utilizza in California, sostanzialmente per il mercato Usa, è perdonato. Se non fosse che la famiglia che produce questi vini è di origini italiane: qualche parente in patria poteva avvertirli. Ma abbiamo anche un'altra ipotesi: forse, scoperto che le montagne vicino all'azienda e alle vigne si chiamano Topa Topa Mountains (proprio così: Topa è ripetuto due volte, risulta su Wikipedia e sulle mappe di Google) il produttore ha deciso di "giocarci sopra" e ha quindi chiamato così la propria impresa (con una "Topa" sola). Non sarà come la nostra Barbera, questa di coltivazione e produzione californiana, ma certo potrebbe avere un seguito, come dire, emozionale, anche commercializzata qui da noi. E potrebbe essere concorrenziale, se non altro per quel nome che campeggia sull'etichetta in bella evidenza. Scherzi della toponomastica. E voglia di scherzare anche per noi, non se la prendano le gentili signore e signorine che seguono questo blog. Di fatto è un esempio di come gli incroci linguistici possono produrre effetti inaspettati o anche volutamente provocatori.
Insoliti Rosati Fra Leggende e Belle Realtà Lucane
Frà, Aglianico del Vulture Rosato, Grifalco.
Ci sono almeno due elementi da esaminare in questa etichetta (forse tre). Uno è "nascosto" nella sua versione letterale (si legge dietro nel retro-etichetta), cioè il nome del produttore: "Grifalco" rappresentato sul fronte solo dall'illustrazione come vedremo dopo. Sovviene anche ai meno fantasiosi che "Grifalco" è un neologismo che forma una parola unica attraverso la fusione di altre due. In pratica la leggenda del Grifone si unisce alla realtà del Falco. Dove il Grifone risiede nei racconti e nelle leggende del luogo, mentre il Falco il luogo lo presidia, in buon numero, come rapace e guardiano delle vigne. Siamo nella Lucania, piccola microregione della Basilicata, dove l'Aglianico (vitigno) è il Re e il Vulture (il vulcano) il suo mentore. La seconda analisi che si può fare deriva dal nome del vino vero e proprio, cioè "Frà". Ebbene si tratta del solito omaggio a una persona (in questo caso Francesca, la figlia del produttore) che però questa volta ha anche un significato interessante e coinvolgente: il vino è un rosato, quindi, nelle intenzioni divulgative dell'azienda, si tratta di un vino che non è né rosso, né bianco. Quindi si colloca "Frà" il rosso e il bianco, in una terra di mezzo in grado però di dare molte soddifazioni. Volendo c'è una terza e ultima considerazione: per il design e per le scelte cromatiche dell'etichetta. Certo il colore del vino è particolare e tutto sommato non stona con quell'azzurro cielo che di alimentare ha davvero poco. Si nota certamente il gradevole, emblematico e ben realizzato rapace iconografico che "domina" l'etichetta.
La Dirompente Energia di un Vino Orange (Viola e Giallo)
Slatnik, Chardonnay e Friulano, Radikon.
Quello che attira subito l'attenzione in questa etichetta è la vera e propria aggressione cromatica messa in atto dal viola e dal giallo. Un agguato per gli occhi, aggravato dalla sinuose, quasi taglienti, serpentine che fanno zig-zag in mezzo alle lettere del nome del produttore. Siamo in Friuli, in un lembo di terra che si insinua in territorio Sloveno. Terra di vini bianchi, anzi, arancioni, come dicono gli esperti. È il caso di questo blend di Chardonnay e Friulano in proporzioni 80-20, che si chiama Slatnik. A proposito, il nome richiama una zona, un toponimo, che i vecchi del paese traducono in "terra d'oro". Ma torniamo all'etichetta che sul fronte presenta unicamente un quadrato, con il colori sopra menzionati, non proprio adatti al prodotto vino, se vogliamo guardare la casistica, e con il solo nome del produttore, Radikon, in evidenza. Sul retro tutto il resto: nome del vino, definizioni di legge, etc, etc. Il colpo d'occhio a scaffale c'è, ma è un colpo che rischia di offendere l'iride, di irritare la cornea, di insidiare la retina. Farsi notare è importante, ma c'è modo e modo. Bizzarra, certo, questa modalità di presentazione. Inconsueta, rompe le regole. Ma le idee "di rottura" rischiano di risultare fin troppo dirompenti se sono fini a se stesse.
E se Viene il Magone, il Vino Stesso se lo Porta Via
Magone, Pinot Nero, Sergio Mottura.
Apprendiamo leggendo la scheda di questo vino nel sito del produttore che "Magone" è il nome del vigneto ("il più vecchio dell'azienda") dove maturano le uve del Pinot Nero laziale in esame. Ragioni storico-affettive-topografiche, quindi, hanno influito nella decisione di attribuire questo nome a questo vino. Ma vediamo cosa si trova, letteralmente, di fronte un potenziale (nuovo) acquirente: la parola magone, se non immediatamente concepita come toponimo può portare a interpretazione come "un grande mago" o piuttosto alla definizione di uno stato d'animo che comunemente viene descritto come "avere il magone". Infatti Treccani alla voce corrispondente afferma: "(dal germ. mago), region. - 1. parte dello stomaco del pollo, nella quale viene triturato il cibo, ventriglio. 2. (fig.) condizione di sofferenza psichica, che si manifesta come un peso sullo stomaco, spec. nell'espressione avere il magone." Il sito specializzato in etimo e semantica che si chiama "Una Parola al Giorno" dice: "Stomaco, specie del pollo; peso, accoramento (dal longobardo: mago gozzo.)" e aggiunge "una scena triste e stupenda di un film, o l'acme di una tragedia a teatro, o una musica sublime ci fanno venire il magone". Insomma la parola trasmette in primo luogo sensazioni legate a uno stato di malessere. Una condizione negativa che certamente il vino riuscirà, almeno in parte, ad annullare. Ma questo è un altro discorso. Graficamente l'etichetta è abbastanza anonima tranne che per la simpatica istrice, simbolo aziendale che si trova anche su tutte le altre etichette della gamma.
Nel Design Vale Tutto o Forse No
L'azienda in analisi è partita (abbastanza) bene con il proprio logo, almeno a livello concettuale (come elaborato grafico un po' meno), ecco infatti il rational che si legge nel sito del produttore: "Il nome Zýmē proviene dal greco e significa “lievito”, elemento fondamentale nel mondo dell’enologia, ma anche elemento simbolico che richiama la naturalità, valore basilare nel percorso lavorativo ed esistenziale di Celestino Gaspari e il fermento, inteso come attitudine continua alla trasformazione. In sintonia con questa filosofia, il logo dell’azienda rappresenta una foglia di vite in cui è inscritto un pentagono, simbolo dei cinque elementi principali per la produzione del vino: uomo-vite-terra-sole-acqua". Ottimo. Uomo, Vite, Terra, Sole. C'è tutto. Ma graficamente, visualmente quindi, il logo stenta nell'essere "emblematico". In compenso la descrizione è coinvolgente. Per quanto riguarda le etichette di questa azienda vinicola veneta meglio dire che sono... migliorabili. Prendiamo come esempio quella di uno dei vini rappresentativi della gamma, e anche più commercializzati, il Valpolicella Classico Superiore. Macchia di colore uniforme, color vino praticamente, dove vengono applicate grafiche abbastanza incomprensibili. In alto a sinistra una "V" sembra includere un grappolo mentre un pennello, più in basso, sembra tracciare altre due lettere, a comporre quello che dovrebbe/potrebbe essere un nome: "Val". Sotto a questo "disegno" troviamo la definizione della tipologia di vino, corredata abbondantemente da puntini di sospensione. Alla base il logo aziendale con la foglia e il pentagono di cui abbiamo parlato all'inizio di questo post, e la firma del titolare piuttosto illeggibile. In generale una certa perplessità è d'obbligo.
Cupi e Dirupi sulle Montagne Altoatesine
Lamarein, Lagrein, Mayr-Unterganzner.
Si tratta di un caso in cui l'etichetta rispecchia fortemente il contenuto della bottiglia. La percezione che immediatamente si riceve da questo disegno, del quale nulla sappiamo, ma il gioco questa volta è proprio questo, è di cupo rimuginamento (da "rimuginare", sempre che il Devoto Oli lo consenta). Si ha la sensazione di un vorticare di oscuri pensieri o come minimo di una meditazione profonda e solitaria. Un uomo di sicuramente di montagna, forse paleolitico, dai tratti certo non aggraziati, viene raffigurato con tecnica al tratto o al carboncino, intento ad osservare picchi rocciosi e meteorologia avversa. Stiamo parlando di una etichetta di un produttore altoatesino, e di un vino dal carattere piuttosto arcigno, dal colore impenetrabile, di concentrazione quasi indecifrabile. Si tratta, tecnicamente, di un Lagrein (vitigno) molto selezionato in vigna e quindi lasciato appassire da
ottobre a Natale in soffitta. Non contenti di ciò viene "internato" in botti di rovere (barriques e tonneaux nuove) per almeno 16 mesi. Il risultato, dice chi ha assaggiato questa rarità prodotta in pochi esemplari, è sorprendente per intensità e coinvolgimento papillare. Certo il coinvolgimento attenzionale, dell'etichetta, tratta le sfere emozionali noir e introspettive. Può essere una chiave di "apertura" anche questa. Del nome (che si legge solo sul retro) nulla si sa, "Lamarein", se non che pur essendo dolce nella fonetica, assona con "amaro". E anche con "Lagrein", logicamente. Forse è questa la chiave di lettura. Le indagini sono in corso.
ottobre a Natale in soffitta. Non contenti di ciò viene "internato" in botti di rovere (barriques e tonneaux nuove) per almeno 16 mesi. Il risultato, dice chi ha assaggiato questa rarità prodotta in pochi esemplari, è sorprendente per intensità e coinvolgimento papillare. Certo il coinvolgimento attenzionale, dell'etichetta, tratta le sfere emozionali noir e introspettive. Può essere una chiave di "apertura" anche questa. Del nome (che si legge solo sul retro) nulla si sa, "Lamarein", se non che pur essendo dolce nella fonetica, assona con "amaro". E anche con "Lagrein", logicamente. Forse è questa la chiave di lettura. Le indagini sono in corso.
Eternità del Vino, Dentro e Fuori
L'Eterno, Pinot Nero, Feudi del Pisciotto.
Grazie alla competenza e alla passione dell'enoteca Sorso di Vino di Milano, abbiamo potuto scoprire e apprezzare questa etichetta di un noto e qualificato produttore siciliano. Si tratta di un packaging che appartiene senza dubbio alla categoria "etichette d'arte". Etichette che oltre a parlare del vino che rappresentano, riescono ad offrire anche una prospettiva culturale. In questo caso il nome e l'immagine riportate sul fronte della bottiglia fanno riferimento a un'opera scultorea dell'artista Giacomo Serpotta (1656-1732) il cui restauro è stato co-finanziato dall'azienda vinicola in questione. Il titolo dell'opera è "L'Eterno", parola in grado di evocare spazi infiniti, mnemonici, temporali, forse quantistici, ma rimanendo con i piedi ben piantati in vigna, questo nome e quel gesto ritratto nell'indicare, o se vogliamo nel cogliere, possono calzare per sostenere l'espressione gustativa di un vino che dentro di sé ha una sorta di eternità ancestrale. Terra, tradizioni, cultura, civiltà, storia, un susseguirsi ed inseguirsi di eventi, soprattutto in Sicilia, dove la vite è sempre stata sollievo e testimonianza di natura e umanità. Resta da aggiungere che questo Pinot Nero, secondo gli esperti, fa il pelo e contropelo a certi costosissimi vini di Borgogna, con buona pace dei francesi che la Sicilia, in un antico passato, l'hanno conosciuta e anche un po' bistrattata.
Un Goccio di Stile Dialettale
È got, Merlot e Sangiovese, Cevico Group.
Questa linea di vini, che comprende, oltre al blend Merlot e Sangiovese (qui ritratto nella versione screw-cap per l'export e in quella classica col sughero), anche un Trebbiano e Chardonnay e un Rosé, presenta un design molto spartano, pulito, quasi etereo, se non fosse per il nome del vino (della linea in questo caso) e il carattere con il quale è scritto. Citiamo subito il produttore, al riguardo: "E' Got è il tipico bicchiere di vino in dialetto romagnolo; racchiude l'unità di misura per eccellenza per degustare un buon vino, ampio, che lasci passare i profumi ma non troppo capace, che lasci il desiderio all'ultimo sorso". Traducibile in "un goccio", aggiungiamo noi. Il carattere di scrittura ha uno stile "a mano" e si espone con un inchiostro speciale dorato (che sembrerebbe anche specchiato). Si incontrano qui (o si scontrano) lo stile campagnolo, dialettale del nome, con un design modernista, da arte contemporanea. L'impatto a scaffale c'è, in quanto la bottiglia si fa certamente notare anche a distanza. Il nome lascia un attimo di perplessità: poco intelleggibile, soprattutto dal punto di vista semantico. Problema, come spesso abbiamo detto, comune a tutte le accezioni dialettali utilizzate come nomi.
Duri e Puri, in Favore Della Vernaccia Tradizionale
'ppiccato, Marche Rosso Passito
(Vernaccia di Serrapetrona), Fattoria Duri.
(Vernaccia di Serrapetrona), Fattoria Duri.
In quel crogiuolo di vitigni, usi, costumi e tradizioni del nostro bel paese, l'Italia intera, è possibile scoprire una delizia al giorno per anni e anni. Basta girare di regione in regione, di provincia in provincia, di paese in paese. Il piccolo borgo in questione è, questa volta, Serrapetrona, in provincia di Macerata, nelle Marche. Le sottovalutate e bellissime Marche. Qui cresce e viene lavorato un vitigno poco noto fuori dai confini regionali che si chiama Vernaccia Nera. In pratica, la Vernaccia di Serrapetrona, vinificata in maggior parte come Docg in versione spumantizzata e anche come Doc Serrapetrona nella tipologia vino rosso fermo. La Vernaccia di Serrapetrona si presta inoltre ad essere vinificata come passito da fine pasto o da "meditazione" come negli ultimi anni è di moda definire. Ci sono molti modi di ottenere un passito, cioè di fare appassire l'uva così che si possa verificare una concentrazione naturale di sapori e zuccheri. Parleremo in particolare del passito fiore all'occhiello della Fattoria Duri ottenuto secondo una modalità tra le più... dure. E anche più costose in termini di tempo e fatica. Le uve infatti vengono appese su canne naturali per evitare che possano entrare in contatto né tra un grappolo e l'altro, né tra gli acini e altre superfici. Da qui nasce il nome di questo vino, "'ppiccato", nome che ricorda foneticamente (e figuratamente) l'Impiccato degli Arcani Maggiori che per i Tarocchi di Marsiglia, in francese, sarebbe "Le Pendu", il numero XII. Niente di drammatico, nemmeno in quel caso, perché il significato, il senso da cogliere è: "attaccato su", "appeso", più che impiccato. La forma dialettale fa il resto, connotando tale modalità di appassimento con forza semantica e iconografica. Riassumendo, la modalità di produzione prevede la raccolta manuale dei grappoli migliori in vigna, quelli intatti, maturi, perfetti. Il trasporto in cassette separate fino al locale apposito adibito all'appassimento (che alla Fattoria Duri hanno ribattezzato "Galleria del Vento", perché dotato di ventilatori sempre in funzione). Infine la pazienza per appendere uno ad uno i grappoli e poi l'attesa: da 5 a 6 mesi prima di torchiare l'uva. Nell'etichetta del passito di Fattoria Duri, dove appare il nome del vino in verticale a grandi lettere, viene anche rappresentato un grappolo ancora fornito del proprio tralcetto superiore (lasciato affinché possa essere appeso stabilmente). Si tratta di un'etichetta semplice, schietta, come il carattere degli abitanti di quelle zone, che nasconde però un vino complesso e ricco di personalità, con sfumature organolettiche da estasi enogastronomica. Alla salute delle Marche e delle splendide tradizioni d'Italia.
Nome Sferzante in Etichetta Elegante
Ferzo, Abruzzo Pecorino Superiore, Citra.
La nota e strutturata azienda Citra Vini ha dato vita a una linea di vini autoctoni che si chiama "Ferzo". Il nome, spigoloso, sferzante, tagliente, trova subito riscontro nella cartotecnica dell'etichetta, davvero particolare, ed esattamente definibile come irregolare. Angoli sporgenti rappresentano vele di barche d'alto mare e infatti tutto il concept del design si basa sul nome di una particella di una vela, che insieme ad altre compone poi una forma adatta alla fruizione dei venti e quindi alla navigazione. Pezzi di vela come appezzamenti di vigna, a comporre il frastagliato panorama vitivinicolo abruzzese, fatto di piccole parti come accade storicamente e ancora oggi in molte altre zone d'Italia. La linea "Ferzo" comprende, oltre al Pecorino, anche la Cococciola, la Passerina, il Montepulciano e il Cerasuolo d'Abruzzo. I tagli delle etichette sono tutti diversi così come sono diversi gli autoctoni abruzzesi protagonisti di questa linea. Questo ha rappresentato sicuramente voci di costo maggiori per l'azienda (rispetto al produrre un solo "taglio" di etichetta) ma il valore aggiunto a livello di immagine è significativo. Unica immagine nella grafica dell'etichetta è un tratto in bianco e nero di un veliero. Eleganza, semplicità, storybranding: tre elementi che possono ampliare in modo più che proporzionale la percezione semantica e quindi il successo estetico, oltre che qualitativo, di questi vini.
Lettere che Tracciano Segni nella Mente
Questo produttore che ha sede in un angolo d'Italia all'estremo Est del paese, nel così detto Collio, ha puntato tutto su una lettera: l'iniziale del proprio cognome. Il cognome, Keber, come è facilmente intuibile, viene dall'altra parte del confine, dalla Slovenia e scavando nelle dinastie probabilmente anche più in là, verso gli estesi confini che segnarono le conquiste dell'Impero Austro-Ungarico. A noi qui importa che una lettera, la "K", è diventata marchio. Molto distintivo, tra l'altro. La lettera in questione non è stata scritta con caratteri tipografici bensì tratteggiata con i rapidi segni di un pennello. Campeggia su tutte le bottiglie dell'azienda e giustamente viene utilizzata ovunque: non solo nel pac(K)aging ma anche per la comunicazione e il mar(K)eting in generale. Anche nel sito aziendale, piuttosto originale, la K di Keber ha un ruolo da protagonista e si fa vedere in mille modi e colori dominando la scena. Se vogliamo, le etichette dei vini sono abbastanza spoglie: fondo a tinta piatta, la grande K al centro, il cognome del produttore per esteso, il suo nome "Edi" in modalità firma autografa e il nome del vitigno alla base del fronte etichetta (sul retro vengono raggruppate tutti gli altri dati e le menzioni di legge). Ma la semplicità dell'etichetta non preclude, anzi enfatizza, l'efficacia di questo segno preminente. Un mossa da esperti comunicatori, pensata e realizzata da un uomo (illuminato) che si definisce orgogliosamente "un contadino". Insomma la K non scappa.
Geologismi che Diventano Nome
Ciuèt, Coste della Sesia Nebbiolo, Pietro Cassina.
C'è una zona nell'Alto Piemonte (anzi, più di una) dove il Nebbiolo cresce bene e si fa valere (a livello commerciale non così tanto come il Barolo e il Barbaresco) e conoscere per la qualità dei vini che ivi si producono. A Lessona infatti pochi validi produttori (sono pochi in generale) immettono sul mercato vini di spessore. In tutti i sensi. È la terra che fa la differenza, oltre alla "nobiltà" del vitigno, il Nebbiolo, ritenuto da molti il "Re d'Italia". E dalla terra infatti prende il nome questo vino, ufficialmente della tipologia Coste della Sesia, che si chiama "Ciuèt". Ecco cosa significa questo nome, spiegato da un sito di vendita on-line di vini italiani: "the Nebbiolo grapes used for this wine are grown in an area of the vineyard that has a greater concentration of sandy-clay, also known as Ciuèt, hence the name of this wine". Si tratta di dialetto, è chiaro. Come molte volte accade, soprattutto in un Piemonte ancora molto tradizionalista, i nomi vengono "presi" dal volgo locale, da idiomi dialettali, modi di dire, proverbi e via dicendo. In questo caso il nome compensa la propria incomprensibilità al di fuori dalla zona di origine, con una brevità e una fonetica che aiutano la comunicazione. Almeno questo. Cosa dire infine del resto? L'etichetta è piuttosto elementare: parole centrate su fondo chiaro, nome ben leggibile in rosso (bene), unica concessione a un briciolo di emozione è quell'onda sotto al nome del titolare che simula, crediamo, delle colline vitate e l'opportuna citazione del "lieu-dit": Lessona. Il vino nel calice farà certo di meglio.
Storicità Modernista e Packaging Auto-Ironico
Pandolfo, Sangiovese di Romagna, La Pandolfa.
L'azienda vitivinicola che ha creato queste etichette è stata doppiamente coraggiosa: ha adottato un design insolito e "ingaggiante", fuori dagli schemi, e lo ha fatto prendendosi un po' in giro. Infatti i personaggi che vengono rappresentati e citati nelle etichette dei vini della gamma proposta al pubblico, sono dei nobili che hanno avuto trascorsi significativi in quella zona. In particolare Sigismondo Pandolfo Malatesta, detto "il Lupo di Rimini" noto per aver assaltato nel 1400 il Castello di Fiumana. La tenuta, che fu dei Marchesi Albicini per un lungo periodo (1626-1941), viene in seguito acquisita dalla Famiglia Ricci che ancora oggi (quarta generazione) la gestisce. I tre nobili raffigurati con colori molto forti sono quindi Pandolfo (che si ripete nella versione Riserva), un tale Battista (che a dire il vero sembra essere una donna) e Federico. Nomi altisonanti che in questa elaborazione hanno ricevuto "in dono" nasi da pupazzi di neve, occhi strabuzzati e zigomi pomellati da clown. Una modalità grafica decisamente dissacrante o, come minimo, molto ironica. Certo siamo in Romagna, provincia di Forlì-Cesena, e si sa che il carattere di quelle genti è decisamente ridanciano. Scappa un sorriso e anche di più. Dal canto loro le etichette, come scritto nelle prime righe di questo articolo, sono molto originali e cromaticamente attenzionali. Le nostre preferenze vanno a Pandolfo e in particolare al suo taglio di capelli.
Un Pinot Nero Molto Ben Quotato
Q500, Pinot Nero,
Azienda Agricola Baldessari.
Azienda Agricola Baldessari.
Paolo Conte recita "...e i francesi ci rispettano che le balle ancora gli girano" cantando allegramente di ciclismo eroico nel brano dedicato a Bartali. Perché è vero che i francesi ci guardano con ammirazione (spesso malcelata) anche nel mondo del vino. Lo sanno che sui rossi (come nel ciclismo) siamo competitivi, forse i migliori al mondo, noi italiani. E allora come e dove produrre un Pinot "Noir" che possa competere con quelli di Borgogna? La risposta è: in quota, sia essa latitudine o altezza sul livello del mare. Il Pinot Nero, a quanto pare, ha bisogno, più di altri vitigni, delle escursioni termiche che solo un clima fresco può assicurare (in ogni caso tra giorno e notte). Ed ecco quindi l'etichetta di un Pinot Nero trentino, ottenuto da vigneti posizionati, come è facilmente intuibile, a 500 mt di altezza (a Est della città di Trento, frazione Povo). Il nome del vino infatti, "Q500", allude chiaramente a questa condizione pedemontana. Girano quindi tutti attorno al nome gli elementi di questa etichetta molto semplice: il concept, il design stesso, i colori, la grafica. Vengono utilizzati in modo forse un po' "sfacciato" i colori rosso e nero su sfondo bianco: da manuale di comunicazione, sono le combinazioni cromatiche più attenzionali, lo dicono le ricerche scientifiche. E allora parole grandi, colori forti, intenzioni chiare, messaggio efficace. Certo non viene lasciato molto agire all'eleganza e all'emozione raffinata, ma è il risultato quello che conta. O no? P.S.: dicono che il vino sia molto buono. Piace e dispiace molto anche ai francesi. Photo credits: @vaniagram
Francia, Egitto, Geroglifici e Comunicazione
Grazie alla nostra amica Claudia, ottima esploratrice di etichette e di bellezza della vita in generale, scopriamo questo produttore davvero "iconografico". Le etichette non sono belle bisogna dirlo subito: ripetitive (sono tutte uguali nel simbolo in basso, cambia solo la scritta sopra di esso che spesso non è un nome ma semplicemente la definizione del vigneto/zona), sterili, enigmatiche, poco emozionanti, se non si conosce dettagliatamente la storia che le ha generate. Dunque, il produttore è francese, e opera in quella zona prestigiosa (Borgogna) dove ogni piccola parcella di vigna ha un nome, spesso altisonante (o quanto meno intrigante, come sanno fare bene i francesi del vino). Ettari spezzettati con rese molto basse che generano vini costosi. Così è, se vi piace, in quella parte di mondo enologico. Il titolare prima dell'attuale attività (iniziata attorno al 1990) ha vissuto in Egitto nella Valle del Nilo dove ha scoperto l'iconografia criptica che ha deciso di raffigurare sulla proprie etichette in Francia. È interessante leggere il "rational" che si trova nel sito del produttore, insieme ad una coinvolgente filosofia aziendale, e che riguarda i simboli dell'iconografia egizia in questione: "The symbol or “crest” of the domain of Prieuré Roch, presented on its wine labels, borrows from the wine-making hieroglyph of ancient Egypt. Before the creation of the domain in 1988, Henry Frédéric Roch had previously lived and worked in the Nile Valley, had found in the composition of this hieroglyph a true expression of the values which he intended to carry high whilst developing culture and vinification according to entirely ‘natural” methods, which were at that time “avant-garde” in Burgundy. The glyph of the two yellow “mouths” at the top, the upper representing the divine eye corresponding to the powers which are beyond us: the powers of nature, the region, the weather, all shaping the vintage, below, the human eye, the power which knows itself as being limited, which receives, acknowledges, respects and protects that which comes from the other. Below that, the three egg shapes symbolizing grapes, all different, unique, this primary material of vinification where the Burgundy vigneron selects the distinguished “millerandés”, the smallest, most concentrated berries from which the finest wines are produced. To the side, the papyrus leaf symbolizes both vegetation and the work of the scribe which records and rules human actions, which decant the movement of time. The "Roch" name adorns the base, more than just a signature, it designates those, who up to now, are responsible for these values: the team of the domain, and further, the friends who share and cherish them". Cosa dire? Chapeau per la filosofia. Perplessità per il design. Rispetto per gli antichi egizi e il loro modo di comunicare, molto di sintesi, con i geroglifici.
Dalle Marche alla Toscana (fino all'Etna) il Passo è Breve
Guardoilvento (e N'anticchia),
Nerello Mascalese, Tenuta delle Macchie.
Nerello Mascalese, Tenuta delle Macchie.
La storia, diciamo il percorso, di questa azienda vinicola è complesso, così come il nome di questo vino, sia pure nella sua semplicità. Ed è questo il bello. Andiamo con ordine: Pietro Caciorgna fa parte di una famiglia originaria delle Marche, che ha scoperto che la Toscana è ancora più bella (le Marche sono bellissime, sia chiaro) trasferendosi a Casole d'Elsa (effettivamente una delle zone più paesaggistiche del centro Italia) e acquistando un casale dove varie attività agricole sono state portate avanti dal 1953 a oggi. Compresa la produzione di vino, Sangiovese naturalmente. La cantina è giovane come produzione (solo poche vendemmie negli annali) ma la voglia di sperimentare è tanta. Quindi l'ecquisto di vigneti sull'Etna per approcciare un altro grande vitigno, il Nerello Mascalese. Inizia così, grazie anche all'amicizia e al supporto logistico di un noto produttore siciliano, Tenuta delle Terre Nere, una nuova avventura vinicola. Infatti l'azienda di Pietro Caciorgna raccoglie sull'Etna uve proprie ma vinifica, per ora, nella cantina di Terre Nere. Veniamo al nome del vino: "Guardo il vento" o "Guardoilvento" tutto attaccato, come scritto in etichetta. Bella citazione (del titolo di un romanzo di Francesco Antonelli), evocativa al massimo. Cosa significa guardare il vento? Niente e molto al tempo stesso. Significa vedere e respirare al tempo stesso. Godere di uno dei fenomeni più poetici della natura, il vento, che tra l'altro è medicina per la vite e l'uva. E i vignaioli lo sanno bene. A tal proposito il produttore aggiunge: "Il nome del vino rappresenta l’immagine della vite coltivata ad alberello che viene attraversata in tutte le direzioni dal vento, talvolta accarezzata dolcemente per darle sollievo, talvolta sferzata da una forza violenta. Ma lei, la vite, con le sue radici ben ancorate alla terra che la nutre, e stretta al palo al quale l’uomo l’ha affidata, resta lì a guardare ed ascoltare quel vento, che è anche salubrità, è qualità". L'azienda produce anche un altro vino da Nerello Mascalese, che si chiama "N'anticchia". Nome questa volta in dialetto siciliano, che significa "un pochino", vista l'esigua produzione, di nicchia, di questo vino. Passione per il vino, non solo a livello produttivo, ma anche storico, culturale, letterario e letterale si riscontrano così nelle etichette di questo produttore.
Farsetto e Dialetto (Piemontese)
Fanciotein e Farfuien, Cortese e Barbera,
Cà ed Cerutti.
Cà ed Cerutti.
Farsa, simpatia, folklore... mettiamola così. I nomi in dialetto hanno un problema di pronunciabilità fuori dai confini locali ma se evocano qualcosa di allegro possono risultare almeno gioviali. Si tratta, in questo caso, dell'ennesimo esempio di nomi dialettali di vini che soprattutto in Piemonte sono molto frequenti. Chissà, forse si tratta di radicamento alle origini (che in Piemonte pescano un po' anche in Francia, forse l'uso "ufficiale" del dialetto locale è una forma di "ribellione" ai trascorsi linguistici francofoni, finta ribellione in quanto gli idiomi inevitabilmente si mescolano), forse si tratta della ferma volontà di manifestare la piemontesità come garanzia di qualità. Vediamo comunque cosa significano questi due nomi, "Fanciotein" e "Farfuien". Riferisce il produttore nel proprio sito internet che il primo è "ragazzino", "fanciulletto" mentre il secondo è riferito alle "numerose farfalle che popolano i vigneti di Barbera". I due nomi si somigliano, foneticamente, ma i significati sono diversi. Entrambi evocano comunque immagini belle, solari, allegre, colorate, positive, di gioco, di luce, di magia. Per quanto riguarda le due etichette, il design, ci sarebbe da soprassedere, in quanto risultano davvero "minimali". Un disegno e le scritte centrate, è tutto. Notiamo comunque che il disegno del primo vino è coerente con il nome: si vede un ragazzino con una carriola e dentro ci sono due cani. Nel secondo non troviamo connessioni con il nome: sembra un disegno artistico di un bacco e di una giovane donna in una vigna. Diciamo allora che si tratta di due etichette "genuine", e tanto deve bastare (e probabialmente basta al produttore stesso). Ultima considerazione, per chiudere il cerchio sulla questione dialetto: anche il nome dell'azienda è in vernacolo piemontese: "Cà ed Cerutti", cioè la Casa del Cerutti (Bruno Cerutti per l'esattezza), dove "ed" altro non è che il ribaltamento di "del". Difficile però da cogliere per chi non è piemontese: sembra un errore.
Un Vino e un Nome che Non Lasciano l'Amaro in Bocca
Sine Felle, Chianti Riserva,
Azienda Agricola Moretti.
Azienda Agricola Moretti.
Si tratta di etichette molto classiche e anche molto frequenti in Toscana, sia dalle parti di Montalcino sia nel Chianti Classimo o Geografico. Fondo nero, scritte centrate, stemma di famiglia. Si somigliano tutte. E queste non rompono di certo la regola. L'azienda produce Chianti, Toscana Rosso, Vin Santo e Passito. Lo stile è sempre quello. Abbiamo notato però quel nome "Sine Felle", chiaramente in latino, che viene così racconato nel sito del produttore: "è un "ex libris", della fine del '500, ritrovato durante la ristrutturazione della cantina. L'espressione si trova per la prima volta nel trattato di Cornelio Celso, famoso medico del primo secolo D.C. In senso traslato significa "senza amarezza", motto che ben si addice ai nostri vini dove la morbidezza è il denominatore comune". Interessante e non così scontato l'utilizzo di un ex libris come logo e come racconto. Denota storia, cultura, ricerca, radicamento, prestigio. Bello anche il significato, quel "senza amarezza" che potrebbe essere sì riferito alle qualità organolettiche del vino ma anche a qualcosa di filosofico, comportamentale, caratteriale. Il marchio (che vede il tratto di un'aquila o sparviero) viene riportato centralmente su tutte le etichette dell'azienda, con cromatismi diversi, e diventa così un segno distintivo.
Ma Davvero Questo Vino si Chiama "DaVero"?
DaVero, Barbera Rosato,
DaVero Farms and Winery.
DaVero Farms and Winery.
Il galletto in etichetta è un riferimento francese (lo usano anche quelli del Chianti Gallo Nero, però lì c'è dietro una storia), mentre lo psudo-nome di questo vino richiama echi italiani, così come la definizione del prodotto: Barbera Rosato. Cosa è successo quindi? Come giustificare la "mescolanza" di stimoli ottici e verbali che questa etichetta trasmette? DaVero è anche il nome dell'azienda e sembra proprio che si tratti di una specie di neologismo che possa risultare foneticamente italianizzante (il titolare dell'azienda è un uomo d'affari americano dal cognome anglofono). Poi: la decisione di definire i vini nella dizione italiana (Barbera, Sangiovese, Sagrantino etc... le produzioni dell'azienda coprono un totale di 7 vitigni di origine italiana) affiancandoli a parole come "rosato" in questo caso, attiene sempre al richiamare toni mediterranei, come dichiarato nelle retro-etichette dal produttore. Il galletto fa molto fattoria e forse gli americani non lo ricollegano alla Francia come è invece facile per noi. Questioni culturali: Europa e America sono due continenti che distano ormai solo poche ore di volo ma centinaia di anni di storia, e questi ultimi non si colmano velcocemente. Forse mai. In generale: etichetta che cromaticamente (otticamente) colpisce essendo dotata di una propria originalità (le striature). Nome ben chiaro su tassello nero (ma quel DaVero con una sola "v" disturba un po' noi italiani, proabilmente in Usa la prendono più alla leggera). Galletto ruspante a definire la genuinità. Insomma, in America ci provano. Ci imitano. Perché ci amano.
Un Barolo che Nasce da un Bricco Molto Caro
Carobric, Barolo, Paolo Scavino.
I piemontesi in generale e soprattutto i barolisti amano sfoggiare i nomi dei loro "bric", i bricchi, le sommità delle colline delle Langhe dove indubbiamente la vite cresce e matura meglio che in altre zone. Di bric e bricchi se ne leggono di tutte le dizioni sulle etichette di quella zona e anche il produttore qui in analisi ne ha diverse (Bric del Fiasc, Bricco Ambrogio, etc.). In questo caso, il vino che vediamo qui fotografato, si chiama "Carobric". Il produttore è uno di quelli di nome e di fama indiscutibili a livello qualitativo. Certo che chiamare un Barolo che costa variabilmente tra i 50 e i 75 Euro (on-line) "Carobric" potrebbe indurre qualche considerazione, se non qualche battuta, non positiva per il prodotto stesso. "Buono ma caro, il Barolo Carobric..." sarebbe il minimo, tra un calice a l'altro in qualche trattoria langhigiana (o "langhetta" che dir si voglia). Certamente "caro" ha anche altri significati, oltre a quello toponomastico e storico: caro è qualcosa a cui si tiene molto, caro è un parente, un amico, caro è una forma molto usata per dire "affettuoso", amato, adorato. Ma è anche accezione molto diffusa per parlare di qualcosa di molto costoso: "è caro". La percezione e l'uso della lingua parlata è un dedalo all'interno del quale è bene sapersi orientare. Senza lasciare nulla al caso... o al caro.
Imperfezioni che Comunicano Simpatia
Palistorti e Querce Gobbe, Blend di Rossi
e Merlot, Ternuta di Valgiano e Petra Wine.
e Merlot, Ternuta di Valgiano e Petra Wine.
È una gara all'imperfezione più originale quella ingaggiata per il naming da queste due etichette toscane: tra "Palistorti" e "Querce Gobbe" non si sa cosa scegliere. Per simpatia voteremmo per le querce gobbe ma anche i pali storti hanno la loro goffa personalità. Per la cronaca il primo è un Colline Lucchesi Doc composto da Sangiovese (70%), Merlot (20%) e Syrah 10%. Il secondo è un Merlot in purezza del quale il produttore dice: "porta il nome della vigna che lo produce, Quercegobbe, posta ai margini della macchia mediterranea e orientata verso il mare". Sono due nomi che in ogni caso incuriosiscono e parlano dei luoghi di produzione, quindi bene. Originalità e territorialità. Per quanto riguarda le etichette: quella di Palistorti è estremamente lineare e pulita, forse troppo restìa nel comunicare. Inoltre adotta nelle diciture di legge, in basso, un fastidioso verde quasi fluorescente e poco leggibile. Querce Gobbe presenta un'etichetta molto classica con un disegno che riproduce l'ingresso della cantina di design che l'azienda ha edificato a nuovo. Nome in rosso su etichetta in bianco e nero: otticamente perfetto.
Essenziale. Pulito. Preciso. Punto.
Virgola, Syrah, Azienda Agricola Punto Zero.
Questa azienda veneta, in provincia di Padova, sui Colli Berici, si chiama Puntozero. Ci ha colpito l'estrema sintesi visiva delle etichette. Certamente frutto di uno studio, sia pure nella loro espressione semplice e lineare. Le etichette della gamma sono tutte caratterizzate da punti "ottici" di diverso colore. Il Merlot, in particolare si chiama "Punto", rimarcando il nome aziendale. C'è anche un Syrah che si chiama Virgola, ma gli altri vini non continuano con le "punteggiature": abbiamo "Trasparenza" (Pinot Bianco), "Idea" (Cabernet Sauvignon) e "Dimezzo" (blend di rossi). L'etichetta è monocolore (così come sono da monovitigno 4 vini su 5) e al centro di questo spazio che sembra infinito c'è un punto. Alla base il nome aziendale, nel basso dell'etichetta il nome del vino e il vitigno. Stop. Anzi si dovrebbe proprio dire, punto. Rimane da annotare che questo cromatismo assoluto a scaffale può funzionare. Trasmette eleganza, rigore, precisione. Caratteristiche che valorizzano i prodotti dell'azienda ancora prima di stappare le bottiglie e assaggiare. E questo è proprio quello che deve fare un'etichetta.
Stiamo Insieme Sotto al Vulcano
'nzemmula, Nerello Mascalese,
Vini Ferrara Sardo.
Vini Ferrara Sardo.
Questo piccolo produttore che opera alle pendici del'Etna e che si chiama "Vini" Ferrara Sardo, in realtà, per ora, di vino ne ha solo uno. Ed è quello che vedete in queste foto. In un mondo fatto di degustazioni con centinaia di vini in catalogo e di aziende che producono infinite tipologie di vini (spesso "uscendo dal seminato" per motivi commerciali), produrre un solo vino (e farlo bene) diventa una nota di merito. Un plauso va a questo produttore anche per l'etichetta: piuttosto stereotipata, se vogliamo, in quanto il vulcano da quelle parti lo mettono in mostra tutti. È un segno di riconoscimento, ma se lo usano tutti si perde riconoscibilità. Ferrara Sardo lo ha ritratto però in modo artistico, accennato con un tecnica che sembrerebbe simile al carboncino e che comunque risulta immediata quanto eclettica. Dalla fumarola del vulcano esce, scritto a mano, il nome del vino: "'inzemmula", parola in dialetto che significa "stare insieme", cioè condivisione, gioia di condividere cibo, vino, passioni, illusioni, di questa vita che le viti rendono migliore. Un bel concetto, anch'esso non originalissimo ma verace e condivisibile. Etichetta semplice, che alla base riporta il nome del vino "in chiaro" (giusto renderlo leggibile a tutti) e la dicitura di legge "Vino Rosso". Toni caldi come si addice a un vino vulcanico. Bella la frase in siciliano che appare nel sito del produttore dopo la descrizione del vino: "Godetene: "pi lu piaciri di stari 'nzemmula"!
L'Importante è Procedere Bene
Ha attirato subito la nostra attenzione questa etichetta spartana. Da lontano si coglie un bollo rosso al centro di un fondo nero. Ottico e attenzionale. Il nome, in bella evidenza, è "Procedo", parola italiana con un etimo interessante: da "procedere", francese "procèder", dal latino "processus", composto da "pro" posto davanti a "cedere" nel senso di camminare, andare. Nel sito del produttore, in inglese troviamo: "the Procedo (meaning, “to go forward”) label is the wine buyer’s next step to experiencing the True Northwest flavors of Lady Hill Winery. Using premier regional grapes from heritage Northwest vineyards (including Barbera and Sangiovese from Washington’s Red Willow Vineyard, the first planting of these grapes in the Northwest) Procedo wines are Northwest expressions of classic Bordelaise and Super Tuscan-inspired varietals and red blends". Guardando l'etichetta più da vicino ci si accorge che il bollo rosso un'impronta digitale, probabilmente di un pollice. E su questo il sito aziendale dice: "The smartly designed bottle reflects a bold and masculine statement. The sophisticated silver and black tones, clean and modern typeface, plus the signature red fingerprint of Jerry Owen (his personal stamp on these Old World varietals) present an image of sophistication and craft that belies Procedo’s accessible price range, making a snap purchase decision easy". Essenziale il design, come si diceva all'inizio di questo articolo. Diretto, lineare, pulito, senza concessioni a facili emozioni se non fosse per quell'impronta, una specie di firma umana, un Dna personale, dotato di unicità e certamente in grado di incuriosire. Non sappiamo esattamente come viene pronunciato "Procedo" in america, ma a noi è comunque simpatico.
Brunello Zebrato Sempre Piaciuto?
Zebras, Brunello di Montalcino,
Villa i Cipressi.
Villa i Cipressi.
Di fronte a un'etichetta così particolare (in considerazione anche del fatto che si tratta di un Brunello di Montalcino) è necessario dare subito delle spiegazioni. Le prendiamo direttamente nel sito del produttore, una giovane azienda toscana (che ha iniziato a produrre nel 2000): "La nostra cantina è piccola ma molto particolare perché è stata dipinta ispirandosi ad un quadro di Waltraud Redl, una nostra amica austriaca. Cosi Patrizia Bernini e Waltraud si sono divertite a dare vita a “Zebras” in un ambiente insolito. Da tutto questo è nato anche il vino “Zebras”, un Brunello di Montalcino che è la selezione delle nostre migliori uve". In pratica, il locale dove si trova la barricaia è interamente affrescato con zebre multicolore, le medesime che vengono riportate in etichetta. Il vago significato (aggiuntivo) che abbiamo colto è che la molteplicità degli striati equini e la variabilità dei loro colori rappresenta le diverse zone (e forse anche tipologie di cloni) dove il brunello (sangiovese grosso) viene coltivato, selezionato e raccolto per essere trasformato in questo vino (top di gamma dell'azienda). Si tratta di un gioco, certo, che ha creato etichette iconografiche, "flagship" come dicono gli americani, atte a generare curiosità. E in questo ci riescono bene perché un Brunello che si chiama "Zebras" è certamente insolito e originale (anche un Rosso di Montalcino e una Grappa della medesima azienda hanno usufruito della zebritudine). Certo anche che il mood esotico che questa etichetta genera, nulla c'entra con il celebre altopiano toscano che ospita uno dei vini più tradizionali e conosciuti d'Italia.
Lettere in Ordine Sparso: il Caos-Design
The Label, Cabernet Sauvignon, Turley.
L'importante è esagerare, recitava un noto cantautore milanese. E questo produttore della Napa Valley l'ha fatto. Ha esagerato. Stiamo parlando dell'etichetta del suo Cabernet, logicamente, qui ritratto. Una winelabel dark-style che ti sbatte in faccia esercizi di lettering come in una scuola di grafica. Ma partiamo dal nome, esagerato anch'esso (nel minimalismo creativo, diciamo così): il vino si chiama "The Label". Insomma, come se qui in Italia chiamassimo un vino "L'Etichetta". Potrebbe avere anche dei risvolti originali, tutto sommato. Vediamo il design: il nome, e gli altri elementi verbali del packaging sono letteralmente sparsi in tutta la superficie disponibile senza un senso, un verso, un nesso. Le parole vengono addirittura spezzate, invertite, ribaltate. Il caos creativo, direbbe qualcuno. Noi no. Ci viene da dire che è una gran confusione. Forse si farà notare, risulterà curiosa e strana a vedersi, ma questo esercizio di "stranezza" ci sembra fine a se stesso e quindi poco plausibile. Certo le etichette dei cabernet di Bordeaux sono invariate da secoli e quindi un po' noiose, ma qui si è esagerato.
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