I Cinque Cavalieri dell’Apocalisse (dal Sud con Ardore)
Con le Mele Stiamo a Zero
Zerozzante, Succo di Mela, Raumland.
Grande e nota azienda tedesca più celebre per il “Sekt”, lo spumante germanico che tenta di essere qualcosa di somigliante al nostro Prosecco. Qui si presenta una versione particolare di succo di mela frizzante, senza alcool. Per cui: non è vino e non è nemmeno un succo alcolico. Il tutto viene sancito da un nome quasi imbarazzante: “Zerozzante”, scimmiottando le due parole italiane “zero” e “frizzante”. Per quanto riguarda “zero” ormai in uso concreto anche in inglese e francese (zero dosage et affini). Frizzante invece diventa simbolo di spigliatezza, aperitivezza, giovinezza, anche più di “spumante”, che viene ormai ritenuta parola “vecchia”. Ed ecco qui un fantastico succo di mela rossa, tutto naturale, dove la sola soddisfazione palatale viene probabilmente delegata all’equilibrio tra acidità e dolcezza. Una specie di Champagne fruttarello. A parte il nome il resto del packaging design non è affatto male: carta preziosa, illustrazioni ben fatte, equilibrio degli elementi, chiarezza dei caratteri di scrittura. C’è pure un accenno di inchiostro dorato per dare un tocco di percepibile valore commerciale, oltre che ingredientistico. Che dire? Un mondo fantastico!
Una Dea della Fertilità e un Sarto, in Val di Cembra
Una Turbiana che Vuol Fare la Preziosa
Lugliet, Lugana, Cantina Loda.
Questa cantina bresciana con sede a Pozzolengo sceglie uno stile pulito ma anche a suo modo originale, per le proprie etichette. L’iniziale del nome del vino, infatti, viene evidenziata al centro del packaging nella forma maiuscola, con all’interno della quale una texture di trame che potrebbero ricordare i tralci superiori di una vite. Quello che sembra è uno “scarabocchio” ma che non entra in conflitto con il resto della grafica, anzi, attira l’attenzione con quel pizzico di originalità che mai nuoce a una etichetta di una bottiglia di vino. Originale anche il nome di questo Lugana (o Turbiana che dir si voglia): “Lugliet”. Potrebbe far pensare al mese di luglio, essenziale per la maturazione di queste uve, ma in realtà si tratta del nome geografico/dialettale della vigna relativa alle uve di Lugana dalle quali nasce questo bianco sapido del Lago di Garda. In alto leggiamo il nome, con stemma, della cantina (governata dai fratelli Umberto ed Egidio Loda), in basso le diciture di legge, l’annata, e la doverosa precisazione “vino biologico”. La carta dell’etichetta è di quella tipologia che si definisce “goffrata”, cioè con una trama in rilievo che piace al tatto e che impreziosisce la percezione in generale.
Soffia un Vento Antico e Nuovo in Valtellina
Boffalora, Nebbiolo delle Alpi.
Bacco e il Suo Leopardo, a Cavallo di una Mitica Epoca
Pella, Cabernet Sauvignon, Pella Wine.
Il nome di questo vino rosso che viene dalla Napa Valley ha origini lontane. O meglio, origini diverse: una molto vicina ai due titolari e produttori, Kristof Nils Anderson e sua moglie Jennifer, ovvero la figlia maggiore che hanno deciso di chiamare “Pella” (sì, Pella e non Bella). Ma naturalmente c’è di più, ed esattamente una antica città della Grecia, nella regione della Bottiea, nella Macedonia greca (vicino a Salonicco). Pella fu sede dell’Impero e città natale di Alessandro Magno. Nel 1953 sono iniziati una serie di scavi che ancora oggi stanno portando alla luce mirabolanti opere artistiche di 2000 anni fa, tra le quali il mosaico di un Bacco a cavallo di un leopardo che Pella Wine ha deciso di utilizzare come immagine per l’etichetta di questo vino. La straordinaria scena artistica è stata ritrovata sul pavimento di una villa rinominata “Casa di Dioniso”. Sicuramente per decidere tutto ciò (nome ed etichetta di questo vino) i produttori devono aver accumulato una grande passione per il mondo dell’Antica Grecia e per i suoi miti. Questo Cabernet Sauvignon, del resto, è molto prezioso, ambizioso e raro, visto che se ne producono solo circa 500 bottiglie per ogni annata, diventando anch’esso un mito come il racconto e la cultura che raffigura.
Un Vero Vino Libero (Altro che Chiacchiere)
Un Castello Molto Rappresentativo, in Due Tratti
Peverelli, Rossese di Dolceacqua, Mauro Zino.
In questo caso quello che potrebbe sembrare il nome del vino è in realtà una zona vitata di particolare pregio: Peverelli. Situata proprio sopra all’abitato di Dolceacqua, a 400 mt. S.l.m. Particolare il nome del vitigno: Rossese di Dolceacqua. Molto localizzato, perché solo lì attorno rende bene a livello qualitativo, nonché viene “autorizzato” dal relativo disciplinare. Che dire di una località che si chiama Dolceacqua, che si trova a pochi chilometri dal mare e che produce ottimo vino? Uno scherzo della topografica e della storia di quei territori. Chi è stato a Dolceacqua, uno dei più borghi più belli d’Italia, non può dimenticare il castello che troneggia sul paese. Emblema anche di questa etichetta che lo rappresenta in modo molto schematico, in linguaggio tecnico, stilizzato. E che stile! Con due o tre tratti di pennello ecco tracciato in basso il corso del fiume, e in alto il perimetro del castello (che fu della casata dei Doria). Altri due brevi segmenti “dipingono” le feritoie o le finestre della torre. Estrema sintesi, che di solito sfocia in bellezza. In questo caso lo ha fatto, con eleganza anche dei colori, laddove le tinte scure aumentano la percezione di qualità (questo in generale, ma non è una legge assoluta). L’azienda vinicola, evidenziata in alto a sinistra, con uno scudo e il sottostante nome del titolare, è davvero piccola, come le produzioni di quelle scoscese colline. Particolari e peculiarità che solo nel Bel Paese si possono ancora trovare.
Vini Atletici con un Marketing Ben Allenato
Les Athlètes du Vin, Gamay, Vin Be Good.
Si tratta di un distributore nato nel 1999 che seleziona produttori, spesso piccoli, e produzioni che ritiene possano risultare di successo presso un pubblico comunque appassionato. Opera prevalentemente con i vini della Loira e propone una gamma di etichette con il comune denominatore degli sport olimpici, disegnati in modo “fumettoso” e quindi divertente. Ginnastica artistica, canoa, judo, ma anche attività ludiche come il surf o il salto con la corda. Nel caso di questo Gamay troviamo una ballerina con un gonnellino rosso fatto di bottiglie. Rosso come il vino che contiene questa bottiglia e che, con leggerezza, si rivolge agli amanti dei rossi delicati e poco invasivi a livello palatale. Questo packaging fa parte senza dubbio di quel genere che induce al sorriso, alla simpatia, allo scherzo, perdendo qualcosa in termini di credibilità “tecnica” ma guadagnando i favori di chi cerca anche la parte relativa all’evasione, nel portare in tavola un vino e successivamente nel degustarlo. Il nome di gamma, “gli Atleti del Vino” lascia presagire l’apprezzamento per distinte caratteristiche che ogni vitigno e assemblaggio può costituire. E induce a generare nel consumatore la volontà di provarli tutti. Anche questo è marketing.
Modernità e Cultura Storica nell’Alsazia di Oggi
BG, Riesling, Domaine Bott-Geyl.
Questo Grand cru d’Alsace, vigneto Schlossberg per l’esattezza, rappresenta una storia tipica di quella preziosa regione vinicola nel nord della Francia (una specie di “terra di nessuno” che ancora parla tedesco), Il nome dell’azienda ci fornisce lo spunto per argomentare questa tipicità: due famiglie storiche i Bott e i Geyl, uniscono in matrimonio due dei loro discendenti ed ecco formata una nuova, più grande, società agricola che mette a frutto le esperienze dei entrambi i ceppi famigliari. Certo, i Bott hanno già nel loro cognome il destino di vignaioli e cantinieri (si scherza, in realtà in francese botte si dice tonneau e in tedesco fass). E sta di fatto che oggi l’azienda, demandata agli eredi fin dal 1775, è ancora fiorente. Fedeli alle tradizioni ma innovativi nel tempo: ne è prova questa etichetta molto moderna, da grafica contemporanea, dove le iniziali dei due cognomi di famiglia diventano segno distintivo, marchio, e praticamente anche nome del vino. Si trovano in bella evidenza, in alto, con un croma arancione e in rilievo, scelta che non manca di farsi notare. Sotto al logo troviamo il nome aziendale per esteso e successivamente, dall’alto verso il basso, la stilizzazione di una vigna. Quindi il nome del Grand Cru, poi il vitigno e l’annata. A lato una fascia sempre in arancione vivido, dove vengono raccolte le ulteriori diciture di legge. Insomma, una Alsazia che guarda al futuro ma con i piedi ben piantati nelle propria terra d’origine e di elezione.
Va in Scena il Carnevale di Negrar
Corvina, Cantina di Negrar.
L’etichetta di questo vino prodotto con il vitigno Corvina, della Cantina di Negrar, è una specie di “minestrone illustrativo”, un “carnevale dell’immaginazione” dove vengono messi in scena molti riferimenti geografici e storici. Sicuramente è in grado di attirare l’attenzione per la sua originalità, ma nel complesso, da lontano, sembra più una mescolanza di colori che una narrazione circostanziata. Quando ci si avvicina o si prende in mano la bottiglia, iniziano ad emergere i particolari: nella parte alta troviamo molti riferimenti marini, come balene, timoni, ancore, onde, piovre tentacolari, sia pure mischiate con montagne, nuvole ed altre creature (diciamo creazioni grafiche). Più in basso possiamo scorgere, nel grande mescolame, un alfiere corazzato, vegetazioni varie, antichi mostri, navi e raggi di sole. Insomma, un po’ di tutto senza una andamento logico. Sopra a questa opera grafica molto variopinta leggiamo il nome del vitigno mentre alla base troviamo il nome della nota azienda veneta produttrice, situata in piena area Amarone (di fatto il vitigno Corvina è uno dei principali componenti del noto vino da appassimento). Potremmo definire questo packaging allegorico, certamente molto elaborato, sicuramente colorato e ricco di particolari, esteticamente piacevole. La scelta concettuale va nella direzione opposta a quella della semplicità e della linearità. Ma anche in questo modo ci si può far notare.
Il Bifolco, i Buoi e le Stelle (del Garda)
La Mano di Bruno Bozzetto per il Manzoni della Bergamasca.
Manzù, Incrocio Manzoni, Cà Olta.
Questa etichetta, relativa a una piccola produzione, ha una grande paternità per quanto riguarda la grafica: l’illustre Bruno Bozzetto, disegnatore, sceneggiatore, regista di innumerevoli e divertenti fumetti. L’omino che troviamo in questo packaging, con un bicchiere in mano, ai bordi di una scoscesa collina, lo ha disegnato proprio lui. Si staglia quindi per cromatismo ma anche per originalità questa etichetta che veste un Incrocio Manzoni (vitigno) da cui il nome del vino: Manzù (siamo nella bergamasca, il dialetto è quello, sincopato, con le finali accentate). Le vigne di questo vino bianco albergano esattamente a Scanzorosciate, comune noto più che altro per il Moscato di Scanzo, la più piccola DOCG italiana, che dà luogo a un passito rosso di grande complessità aromatica. Il nome attuale del luogo, Scanzorosciate, si compone di due paesi precedentemente separati, Scanzo e Rosciate. Curiosa e peculiare l’origine di Rosciate: dal greco “ros” per grappolo e dal celtico “ate” per villaggio. Onomatopeico il nome della giovane azienda vinicola (che logicamente produce anche il prezioso Moscato di Scanzo): Cà Olta. Che in dialetto bergamasco significa “casa alta”, cioè casale posto sulla sommità della collina. Sommità che viene ben evidenziata da un colore verde brillante in questa coinvolgente etichetta (e il cerchio si chiude).
Stelle di Mare e di Monte nelle Tempe Cilentane
Rosa Come la Lingua d’Oca
Il Filo del Discorso
Filo, Negroamaro, Cantine Menhir.
Etichetta nera, elegante, con particolari che sorprendono. Al centro labbra femminili, rosse, carnose, vibranti (anche graficamente: il profilo esterno delle labbra “riverbera” in una serie di tratti neri tracciati con inchiostro lucido). Secondo elemento attenzionale: il nome del vino, “Filo”, viene proposto con la grandezza variabile delle lettere che lo compongono. A crescere, dalla “f” iniziale alla “o” finale. Un “filotto” che nella sua scompensatezza (e anche insensatezza) certamente attira l’attenzione in quanto insolito ed originale. I contorni sono in oro, con effetto eleganza soprattutto su nero. Al centro la scritta “Riserva” che nobilita e informa. In basso una frase ad effetto, ben ideata: “…per raccontare ciò che siamo stati, ciò che siamo e ciò che continueremo ad essere”. Bene, c’è un concetto e viene portato avanti con evidenza. Il vino è da vitigno Negroamaro (siamo in Puglia, certamente, zona Salaento). Un vitigno conosciuto ai più, soprattutto in tempi recenti durante i quali questa tipologia si è diffusa (commercialmente, intendiamo) anche nel nord Italia. La Doc invece e tra le meno conosciute: “Terra d’Otranto”, dichiarando così, utilmente, l’origine delle vigne. In particolare questo produttore opera a Minervino di Lecce. I vini pugliesi si fanno largo, sul filo di gradazioni importanti, cercando di non perdere in freschezza.
Una Barbetta Tutta Naturale
Assenza, Barbetta (Barbera del Sannio), Nicola Venditti.
Il nome di questo vino è una dichiarazione di intenti. E al tempo stesso uno svolgimento del tema, con impegno e serietà: si tratta infatti dell’Assenza di solfiti e anche di lieviti selezionati (quindi si utilizzano solo lieviti autoctoni, presenti sulle bucce e nell’ambiente naturale) e di enzimi vari. Il produttore, della zona del beneventano, ha voluto così ribadire il proprio impegno sulla genuinità. Quindi non “Essenza” come molti vini si appellano (fin troppi), bensì “Assenza”, da leggersi come un primato non come negatività (certo, il rischio c’è). In basso, in questa etichetta dal carattere contemporaneo, diciamo “moderno”, e dalle forme futuriste, troviamo il nome del vitigno (nome locale), la Barbetta. Si potrebbe credere che il nome del vino possa essere questo, ma in verità è quello in alto. Al centro troviamo il nome e il logo dell’azienda, Venditti e una piccola scritta aggiuntiva: “Antica Masseria dal 1595”. Rosso Ferrari per il packaging di questo rosso, le forme stilizzate, crediamo, di una vite, sia nella texture dell’etichetta sia nel logo in piccolo. La linea comprende anche una Falanghina dei toni cromatici in arancione (sullo sfondo nella fotografia). Grafica originale, nome fattuale, vino… eccezionale (dicono gli esperti).
La Solitudine dei Nomi Importanti
I Am Not a Big Wine, Riesling e Chardonnay, Nestarec.
L’esercizio minimalista del noto produttore Milan Nestarec non convince fino in fondo. In comunicazione si potrebbe definire come “negative approach” questo nome che inneggia (con una certa arroganza grafica, poi vediamo) a una finta modestia. Questo vino bianco dalla Cechia vuole essere il simbolo di un minimalismo sano e genuino (e questo lo comprendiamo benissimo), della gioia di stare a tavola con gli amici, in semplicità, con tante cose buone sulla tavola. Ed ecco che il minimalismo si rispecchia in una etichetta molto “vuota” (ma anche pulita, certo) dove vengono enfatizzati il nome del produttore (in corsivo) e l’originale nome del vino, in neretto molto vistoso alla base del packaging. Sicuramente si tratta di una scelta grafica originale, con la funzione di farsi ben notare sullo scaffale, ad opera di una visione focalizzata su due elementi soltanto. La carta dell’etichetta è invece preziosa, rugosa, tattile, non banale. Ci sono aziende che possono permettersi questa leadership comunicativa e altre meno. Sicuramente la fama di questo ottimo produttore gli consente di divagare in modo estroso nella produzione di etichette fuori dal comune. Così come vuole essere fuori dagli schemi tutta la filosofia imprenditoriale e organizzativa.
Una Faccia Strana Tra il Serio e il Bislacco
Bislacco, Colline Pescaresi Igt, Platinum Italia.
Davvero strano il nome di questo vino, cioè… “Bislacco”. Parola desueta che vale la pensa di sondare con l’aiuto di Treccani: “Aggettivo (forse dal dialetto veneto bislaco, soprannome che si dava ai Veneti del Friuli e agli Slavi dell’Istria, dallo sloveno bezjak ‘sciocco’). Stravagante, strambo; riferito sia alla persona sia alle sue manifestazioni”. Non un nome qualunque, quindi. La sua rarità nel parlato italiano alla fine si fa notare. E forse quella rappresentazione artistica al centro dell’etichetta conferma il concetto: un faccione tra il futurista e il contemporaneo strapassato (e strapazzato). L’azienda si esprime nei territori che comprendono le colline teramane (a Corropoli), anche con vini e vitigni di zone limitrofe, e nasce ad opera di tre amiche nel recente 2012 con 35 ettari agli attivi. Interessante la descrizione delle velleità aziendali (in fatto di comunicazione) che si può reperire in rete: “Creiamo personalmente il design per la nostra collezione di vini. In ogni etichetta è possibile riscontrare i tratti distintivi del gusto femminile, la mano e lo stile delle tre donne di Platinum e la loro passata esperienza nel settore tessile italiano. Ognuna di esse presenta grafiche, decorazioni e nobilitazioni che ricordano merletti, gioielli, tradizione storica, grazie a speciali effetti come punzonature, lamine metalliche in oro lucido, argento, effetti di contrasto lucido/opaco, fustellature che “vestono” i nostri vini con un’immagine particolarmente preziosa”. Il packaging effettivamente sa farsi notare e tanto basta.
Un Cannonau che Vuol Fare l’Americano
Col Tavolino tra le Colline Storiche dell’Umbria
Nobile di Nome, Sangiovese di Fatto
Vino Nobile di Montepulciano.
Perché un vino con un nome così importante (nome di denominazione, intendiamo, cioè nome del vino in senso lato) non ha raggiunto vette di notorietà come altri in Italia (ad esempio l’Amarone, il Brunello, il Barolo che, se vogliamo, hanno nomi meno sontuosi)? La parola “nobile”, infatti, basta da sola a fornire un concetto elevato di qualità. Eppure il Vino Nobile di Montepulciano non scala ancora oggi le classifiche dei vini più rinomati. Forse per quella questione della confusione territoriale e ampelografica con il Montepulciano vero e proprio? Ricordiamo che il Vino Nobile di Montepulciano (comune toscano di produzione) è costituito al 70% dal vitigno Sangiovese (e per il resto da altri vini autorizzati in Regione), mentre il Montepulciano vero e proprio è un vitigno che si chiama così e che alberga prevalentemente in Abruzzo. Certo che la possibilità di confondere i due vini è notevole, per i non addetti ai lavori. Si tratta quindi di un caso (il Nobile) di vino che non avrebbe bisogno di un nome vero e proprio, presentando, per legge, in etichetta, il suo altisonante nome “tecnico” e fungendo questo da indiscutibile richiamo mnemonico e semantico a percezioni di notevole caratura. Diamo la colpa di questo mancato successo commerciale anche al Consorzio e al marketing che (non) è stato sviluppato? Chi lo sa? Di fatto il vino è molto buono, per quelle produzioni di aziende storiche e qualificate. E tutto sommato la tavola non è uno scaffale.