I Cinque Cavalieri dell’Apocalisse (dal Sud con Ardore)


Edizione Cinque Autoctoni, Blend di Rossi, Fantini.

Per l’annata 2022 Fantini esce con una etichetta davvero particolare: in morbido “velluto”. In pratica la carta del packaging frontale è realizzata con un materiale sintetico che la rende vellutata al tatto. L’originalità di questo vino non inizia (e non finisce) qui: si tratta di un progetto di ampio respiro che merita di essere raccontato. I vitigni che compongono questo vino sono 5 (come afferma il nome stesso, che troviamo in alto nell’etichetta) e sono tra i più importanti del Sud Italia: Montepulciano, Sangiovese, Primitivo, Negroamaro e Malvasia Nera. L’idea di metterli insieme nasce nel 1996: durante un incontro tra “addetti ai lavori”, cioè tra Valentino Sciotti, oggi direttore della “Farnese Group”, Filippo Baccalaro, enologo del gruppo, Hugh Johnson, famoso giornalista del mondo del vino e Jean Marc Sauboua, enologo francese. In quella occasione, Hugh Johnson lanciò l’idea di creare un grande vino del Sud Italia, realizzato con i migliori vitigni di questo territorio. Ed ecco nascere e perdurare nel tempo l’Edizione Cinque Autoctoni, coltivati nei comuni di Colonnella, Ortona, Sava e San Marzano. Le uve Montepulciano e Sangiovese provengono da vigne abruzzesi poste a 300 mt. s.l.m. Mentre le altre varietà, Primitivo, Negroamaro e Malvasia Nera, sono coltivate in Puglia. Sul velluto blu di sfondo, tutti i particolari sono in oro: nome del vino, riproduzione dell’edificio della sede, firma dell’enologo, annata e nome aziendale. Sul collarino è appeso un cartaceo con il racconto del vino. Un’edizione speciale che fa lustro di sé.

Con le Mele Stiamo a Zero


Zerozzante, Succo di Mela, Raumland.

Grande e nota azienda tedesca più celebre per il “Sekt”, lo spumante germanico che tenta di essere qualcosa di somigliante al nostro Prosecco. Qui si presenta una versione particolare di succo di mela frizzante, senza alcool. Per cui: non è vino e non è nemmeno un succo alcolico. Il tutto viene sancito da un nome quasi imbarazzante: “Zerozzante”, scimmiottando le due parole italiane “zero” e “frizzante”. Per quanto riguarda “zero” ormai in uso concreto anche in inglese e francese (zero dosage et affini). Frizzante invece diventa simbolo di spigliatezza, aperitivezza, giovinezza, anche più di “spumante”, che viene ormai ritenuta parola “vecchia”. Ed ecco qui un fantastico succo di mela rossa, tutto naturale, dove la sola soddisfazione palatale viene probabilmente delegata all’equilibrio tra acidità e dolcezza. Una specie di Champagne fruttarello. A parte il nome il resto del packaging design non è affatto male: carta preziosa, illustrazioni ben fatte, equilibrio degli elementi, chiarezza dei caratteri di scrittura. C’è pure un accenno di inchiostro dorato per dare un tocco di percepibile valore commerciale, oltre che ingredientistico. Che dire?  Un mondo fantastico!

Una Dea della Fertilità e un Sarto, in Val di Cembra


Frau Pèrtega ed El Piceno, Schiava e Müller Thurgau, La Campirlota.

Elisa e Paolo hanno “messo su” La Campirlota (nome dell’azienda vinicola e molto altro). In una zona rurale della Val di Cembra si occupano… di vivere in simbiosi con la natura (e con asini, carpette, cani, gatti e tutta la biodiversità possibile). Producono, per ora, solo due vini, un bianco e un rosso. Le etichette sono state disegnate da una amica illustratrice e personificano due leggende del posto, ben raccontate (e qui riportate) nei ripetitivi retro-etichette: “La figura più emblematica delle leggende cimbre, la Frau Pèrtega, vive a Luserna, in una profonda grotta sul precipizio che domina la Valdastico. Qui, all’interno di grandi botti colme d’acqua, custodisce i bambini che devono ancora nascere. Una dea della fertilità, custode di un legame profondo con la madre terra. A lei abbiamo voluto dedicare la nostra Schiava, un vino rosato fresco e fruttato, un vino da compagnia, da bere insieme. Ma non lasciarti ingannare dalla sua freschezza: la sua storia ha radici profonde, quelle delle vigne da cui proviene, che sulle spalle portano quasi un centinaio di primavere”. E poi: “Un sarto protestante di origini svizzere che lavorava a servizio dei signori del castello di Segonzano. Gobbo e piccolotto, ma straordinariamente abile nel creare abiti meravigliosi. Ecco chi era El Picena, protagonista di un’antica leggenda cembrana. Un sarto ribelle, che pagò con la vita la propria libertà: cadde da un fico cresciuto su uno strapiombo mentre fuggiva dai padroni che volevano costringerlo a convertirsi alla religione cattolica. Il nostro Müller Thurgau è un po’ come El Picena: vino aromatico e decisamente sapido, schietto e sincero ma mai arrogante. Coltivato interamente a mano, cresce su terrazzamenti arditi e lotta tenacemente per restare fedele alla propria identità”. Due storie all’interno di una storia più grande, fatta di passione e condivisione. Complimenti e avanti così.

Una Turbiana che Vuol Fare la Preziosa


Lugliet, Lugana, Cantina Loda.

Questa cantina bresciana con sede a Pozzolengo sceglie uno stile pulito ma anche a suo modo originale, per le proprie etichette. L’iniziale del nome del vino, infatti, viene evidenziata al centro del packaging nella forma maiuscola, con all’interno della quale una texture di trame che potrebbero ricordare i tralci superiori di una vite. Quello che sembra è uno “scarabocchio” ma che non entra in conflitto con il resto della grafica, anzi, attira l’attenzione con quel pizzico di originalità che mai nuoce a una etichetta di una bottiglia di vino. Originale anche il nome di questo Lugana (o Turbiana che dir si voglia): “Lugliet”. Potrebbe far pensare al mese di luglio, essenziale per la maturazione di queste uve, ma in realtà si tratta del nome geografico/dialettale della vigna relativa alle uve di Lugana dalle quali nasce questo bianco sapido del Lago di Garda. In alto leggiamo il nome, con stemma, della cantina (governata dai fratelli Umberto ed Egidio Loda), in basso le diciture di legge, l’annata, e la doverosa precisazione “vino biologico”. La carta dell’etichetta è di quella tipologia che si definisce “goffrata”, cioè con una trama in rilievo che piace al tatto e che impreziosisce la percezione in generale.

Soffia un Vento Antico e Nuovo in Valtellina


Boffalora, Nebbiolo delle Alpi.


L’azienda e quindi, in un certo senso, la linea dei vini, si chiama Boffalora, nome che viene così commentato dal produttore Giuseppe Guglielmo (nome e cognome): “L'azienda è nata nel 2002. Il nome “Boffalora” nasce dal toponimo di una delle vigne principali dell’azienda e richiama il soffiare del vento: in Valtellina i venti si chiamano Breva e Tivano, di giorno dal lago di Como sale la Breva e di notte in senso opposto scende il Tivano”. Quindi “Boffalora” sta per “boffa” (soffia) “l’ora” (nome del vento, in generale nel nord Italia, che a una certa ora sale da sud come accade alla vera e propria “Ora del Garda”). I vini del Beppe (così viene chiamato in Valle) sono 4 + 1 e hanno tutti dei nomi particolari: i quattro rossi in fotografia, a base Nebbiolo (delle Alpi), più, dal 2021 un rosato in anfora che si chiama Anforosa (crasi molto interessante dal punto di vista semantico). Ma vediamo i nomi in dettaglio: Pietrisco, il top di gamma, immaginiamo che il nome derivi dal tipo di terreno dove viene coltivata la vigna, che in etichetta mostra un antico papiro commerciale della zona; Umo, che sembra derivare da “Uomo” (nobile incontro tra Uomo e Natura, dice il produttore); Runco de Onego, che nasce da una citazione in latino: “Noi, Garaldo e Grima vendiamo la vigna in loco et fundo Andevenno a locus ubi dicitur Runco de Onego…” (da Codice Diplomatico Longobardo, A.D. 1035); la Sàsa, Riserva da vendemmia tardiva a 700mt. S.l.m. Nell’ordine, in queste ultime tre arcaiche etichette, vediamo, un tavolo con calice e bottiglia con lo sfondo del paesello, uno scarabocchio che riproduce una faccia cherubina e un viso triste ma vendemmiante. Scelte a volte bizzarre da parte di un vignaiolo vero e sincero come i vini che produce.

Bacco e il Suo Leopardo, a Cavallo di una Mitica Epoca


Pella, Cabernet Sauvignon, Pella Wine.

Il nome di questo vino rosso che viene dalla Napa Valley ha origini lontane. O meglio, origini diverse: una molto vicina ai due titolari e produttori, Kristof Nils Anderson e sua moglie Jennifer, ovvero la figlia maggiore che hanno deciso di chiamare “Pella” (sì, Pella e non Bella). Ma naturalmente c’è di più, ed esattamente una antica città della Grecia, nella regione della Bottiea, nella Macedonia greca (vicino a Salonicco). Pella fu sede dell’Impero e città natale di Alessandro Magno. Nel 1953 sono iniziati una serie di scavi che ancora oggi stanno portando alla luce mirabolanti opere artistiche di 2000 anni fa, tra le quali il mosaico di un Bacco a cavallo di un leopardo che Pella Wine ha deciso di utilizzare come immagine per l’etichetta di questo vino. La straordinaria scena artistica è stata ritrovata sul pavimento di una villa rinominata “Casa di Dioniso”. Sicuramente per decidere tutto ciò (nome ed etichetta di questo vino) i produttori devono aver accumulato una grande passione per il mondo dell’Antica Grecia e per i suoi miti. Questo Cabernet Sauvignon, del resto, è molto prezioso, ambizioso e raro, visto che se ne producono solo circa 500 bottiglie per ogni annata, diventando anch’esso un mito come il racconto e la cultura che raffigura.


Un Vero Vino Libero (Altro che Chiacchiere)


Libero, Blend di Rossi, Az. Agr. Casagori.

Questo vino prodotto a metà strada tra Montalcino e Montepulciano può considerarsi davvero “Libero”. Lo è di nome, innanzitutto, lo è l’etichetta, molto spartana, semplice, diretta, con quel carattere di scrittura corsivo, appena tracciato e tutte quelle “caravelle volanti” che donano sensazioni di leggerezza, di alterità, di gioia e spensieratezza. E’ un vino libero anche per il fatto che viene prodotto in regime biologico. Vediamo cosa recita in propostito il sito internet del produttore: “E’ il vino Libero di Casagori. Sincero e leggiadro come il vento che spira tra questi filari. Fermentato grazie a lieviti indigeni senza controllo della temperatura con un 5% di raspi interi. Dopo una lunga macerazione pellicolare, il vino affina per 12 mesi in tonneaux da 500 lt di rovere francese, esausti”. Un po’ di poesia, nel descrivere un vino, non guasta mai. Ma anche qualche dovizia tecnica per i più avvezzi. L’azienda si trova a Pienza e in tutta la proprie comunicazioni manifesta una certa genuinità di intenti e di di filosofia. Le etichette si fanno notare per questo tratto (anche quello relativo alla parte illustrata) immediato, quasi bambinesco, davvero poco serioso, mancante quindi di credibilità “tattica”, ma dotato di molta empatia. Il vino, come la sua comunicazione, deve essere sempre un’alchimia di elementi. Che portano ad un assoluto che sfocia nel bicchiere e nel godere, del  buon bere.

Un Castello Molto Rappresentativo, in Due Tratti


Peverelli, Rossese di Dolceacqua, Mauro Zino.

In questo caso quello che potrebbe sembrare il nome del vino è in realtà una zona vitata di particolare pregio: Peverelli. Situata proprio sopra all’abitato di Dolceacqua, a 400 mt. S.l.m. Particolare il nome del vitigno: Rossese di Dolceacqua. Molto localizzato, perché solo lì attorno rende bene a livello qualitativo, nonché viene “autorizzato” dal relativo disciplinare. Che dire di una località che si chiama Dolceacqua, che si trova a pochi chilometri dal mare e che produce ottimo vino? Uno scherzo della topografica e della storia di quei territori. Chi è stato a Dolceacqua, uno dei più borghi più belli d’Italia, non può dimenticare il castello che troneggia sul paese. Emblema anche di questa etichetta che lo rappresenta in modo molto schematico, in linguaggio tecnico, stilizzato. E che stile! Con due o tre tratti di pennello ecco tracciato in basso il corso del fiume, e in alto il perimetro del castello (che fu della casata dei Doria). Altri due brevi segmenti “dipingono” le feritoie o le finestre della torre. Estrema sintesi, che di solito sfocia in bellezza. In questo caso lo ha fatto, con eleganza anche dei colori, laddove le tinte scure aumentano la percezione di qualità (questo in generale, ma non è una legge assoluta). L’azienda vinicola, evidenziata in alto a sinistra, con uno scudo e il sottostante nome del titolare, è davvero piccola, come le produzioni di quelle scoscese colline. Particolari e peculiarità che solo nel Bel Paese si possono ancora trovare.

Vini Atletici con un Marketing Ben Allenato


Les Athlètes du Vin, Gamay, Vin Be Good.

Si tratta di un distributore nato nel 1999 che seleziona produttori, spesso piccoli, e produzioni che ritiene possano risultare di successo presso un pubblico comunque appassionato. Opera prevalentemente con i vini della Loira e propone una gamma di etichette con il comune denominatore degli sport olimpici, disegnati in modo “fumettoso” e quindi divertente. Ginnastica artistica, canoa, judo, ma anche attività ludiche come il surf o il salto con la corda. Nel caso di questo Gamay troviamo una ballerina con un gonnellino rosso fatto di bottiglie. Rosso come il vino che contiene questa bottiglia e che, con leggerezza, si rivolge agli amanti dei rossi delicati e poco invasivi a livello palatale. Questo packaging fa parte senza dubbio di quel genere che induce al sorriso, alla simpatia, allo scherzo, perdendo qualcosa in termini di credibilità “tecnica” ma guadagnando i favori di chi cerca anche la parte relativa all’evasione, nel portare in tavola un vino e successivamente nel degustarlo. Il nome di gamma, “gli Atleti del Vino” lascia presagire l’apprezzamento per distinte caratteristiche che ogni vitigno e assemblaggio può costituire. E induce a generare nel consumatore la volontà di provarli tutti. Anche questo è marketing.

Modernità e Cultura Storica nell’Alsazia di Oggi


BG, Riesling, Domaine Bott-Geyl.

Questo Grand cru d’Alsace, vigneto Schlossberg per l’esattezza, rappresenta una storia tipica di quella preziosa regione vinicola nel nord della Francia (una specie di “terra di nessuno” che ancora parla tedesco), Il nome dell’azienda ci fornisce lo spunto per argomentare questa tipicità: due famiglie storiche i Bott e i Geyl, uniscono in matrimonio due dei loro discendenti ed ecco formata una nuova, più grande, società agricola che mette a frutto le esperienze dei entrambi i ceppi famigliari. Certo, i Bott hanno già nel loro cognome il destino di vignaioli e cantinieri (si scherza, in realtà in francese botte si dice tonneau e in tedesco fass). E sta di fatto che oggi l’azienda, demandata agli eredi fin dal 1775, è ancora fiorente. Fedeli alle tradizioni ma innovativi nel tempo: ne è prova questa etichetta molto moderna, da grafica contemporanea, dove le iniziali dei due cognomi di famiglia diventano segno distintivo, marchio, e praticamente anche nome del vino. Si trovano in bella evidenza, in alto, con un croma arancione e in rilievo, scelta che non manca di farsi notare. Sotto al logo troviamo il nome aziendale per esteso e successivamente, dall’alto verso il basso, la stilizzazione di una vigna. Quindi il nome del Grand Cru, poi il vitigno e l’annata. A lato una fascia sempre in arancione vivido, dove vengono raccolte le ulteriori diciture di legge.  Insomma, una Alsazia che guarda al futuro ma con i piedi ben piantati nelle propria terra d’origine e di elezione. 

Va in Scena il Carnevale di Negrar


Corvina, Cantina di Negrar.

L’etichetta di questo vino prodotto con il vitigno Corvina, della Cantina di Negrar, è una specie di “minestrone illustrativo”, un “carnevale dell’immaginazione” dove vengono messi in scena molti riferimenti geografici e storici. Sicuramente è in grado di attirare l’attenzione per la sua originalità, ma nel complesso, da lontano, sembra più una mescolanza di colori che una narrazione circostanziata. Quando ci si avvicina o si prende in mano la bottiglia, iniziano ad emergere i particolari: nella parte alta troviamo molti riferimenti marini, come balene, timoni, ancore, onde, piovre tentacolari, sia pure mischiate con montagne, nuvole ed altre creature (diciamo creazioni grafiche). Più in basso possiamo scorgere, nel grande mescolame, un alfiere corazzato, vegetazioni varie, antichi mostri, navi e raggi di sole. Insomma, un po’ di tutto senza una andamento logico. Sopra a questa opera grafica molto variopinta leggiamo il nome del vitigno mentre alla base troviamo il nome della nota azienda veneta produttrice, situata in piena area Amarone (di fatto il vitigno Corvina è uno dei principali componenti del noto vino da appassimento). Potremmo definire questo packaging allegorico, certamente molto elaborato, sicuramente colorato e ricco di particolari, esteticamente piacevole. La scelta concettuale va nella direzione opposta a quella della semplicità e della linearità. Ma anche in questo modo ci si può far notare.

Il Bifolco, i Buoi e le Stelle (del Garda)


Bifolco, Blend di Rossi, Saottini.

In questo mondo variegato del vino italico si susseguono nomi stereotipati, allegorici, strani, insoliti, sfrontati, a volte anche adeguati, per fortuna. Qui ne abbiamo uno che è il frutto di una scelta davvero particolare: chiamare un vino “Bifolco”. Si tratta di una parola desueta che quasi nessuno pronuncia più. Ma sulla Treccani come su tutti i principali dizionari si trova ancora: “…singolare maschile (dal latino bubŭlcus, bufulcus). 1. Guardiano di buoi; chi lavora il terreno coi buoi. 2. Soggetto ignorante, zoticone, screanzato. 3. In astronomia, Bifolco, è altro nome della costellazione di Boote”. Prendiamo per buona la prima: guardiano/lavoratore con i buoi. Ma nella comprensione generale purtroppo emerge sempre in prima battuta il secondo significato qui esposto. E quindi? Potrebbe di conseguenza derivarne una comprensione non limpidissima, poco vantaggiosa, diciamo così. E la grafica in etichetta? Vediamo una mano nell’atto di afferrare qualcosa, mano realizzata con un fondo cielo stellato. Enigmatica quanto basta e poco legata al nome del vino. Se non vogliamo intendere che il contadino che lavora la terra lo fa sotto un cielo stellato (ma la terra si lavora di giorno, non di notte). Il logo dell’azienda è una rosa dei venti. Il pay-off (lo apprendiamo dal sito) è “gusto e tradizione dal 1917”. Per la cronaca ci troviamo sul Garda e i vitigni che compongono questo vino rosso sono il Rebo, il Merlot e il Cabernet.

La Mano di Bruno Bozzetto per il Manzoni della Bergamasca.

 


Manzù, Incrocio Manzoni, Cà Olta.

Questa etichetta, relativa a una piccola produzione, ha una grande paternità per quanto riguarda la grafica: l’illustre Bruno Bozzetto, disegnatore, sceneggiatore, regista di innumerevoli e divertenti fumetti. L’omino che troviamo in questo packaging, con un bicchiere in mano, ai bordi di una scoscesa collina, lo ha disegnato proprio lui. Si staglia quindi per cromatismo ma anche per originalità questa etichetta che veste un Incrocio Manzoni (vitigno) da cui il nome del vino: Manzù (siamo nella bergamasca, il dialetto è quello, sincopato, con le finali accentate). Le vigne di questo vino bianco albergano esattamente a Scanzorosciate, comune noto più che altro per il Moscato di Scanzo, la più piccola DOCG italiana, che dà luogo a un passito rosso di grande complessità aromatica. Il nome attuale del luogo, Scanzorosciate, si compone di due paesi precedentemente separati, Scanzo e Rosciate. Curiosa e peculiare l’origine di Rosciate: dal greco “ros” per grappolo e dal celtico “ate” per villaggio. Onomatopeico il nome della giovane azienda vinicola (che logicamente produce anche il prezioso Moscato di Scanzo): Cà Olta. Che in dialetto bergamasco significa “casa alta”, cioè casale posto sulla sommità della collina. Sommità che viene ben evidenziata da un colore verde brillante in questa coinvolgente etichetta (e il cerchio si chiude). 

Stelle di Mare e di Monte nelle Tempe Cilentane


Asterìas, Fiano, Tempa di Zoe.

Abbiamo qualche definizione da chiarire. Innanzitutto il nome del vino, poi il vitigno (Fiano della Costa Cilentana) e infine il nome del produttore. Iniziamo con le parole che troviamo nel sito internet dell’azienda, che riguardano questa etichetta: “Asterìas significa stella marina in lingua greca. Si tratta del primo bianco dell’azienda ed è ottenuto da uve Fiano. Il simbolo della stella è una guida ma anche un riferimento: esso prende ispirazione dalla presenza del Monte Stella, un massiccio che sorge nel Parco Nazionale del Cilento, raggiungendo i 1131 metri sul mare, che svetta sul nostro vigneto, che è incastonato tra la montagna ed il mar Tirreno”. Quindi il nome del vino si riferisce a un animale marino ma si ispira anche a un monte. Dualità tra terra e mare che potrebbe confondere o forse confortare, vista la grande bellezza e varietà geomorfologica di un Cilento ancora oggi poco considerato come terra dei vini e luogo di amenità. E quel numero 6 in grande evidenza al centro del packaging? Ebbene, nonostante questo sia, come dichiarato in precedenza, il primo vino bianco dell’azienda, si tratta, in ordine di “uscita” del sesto vino nato in questa cantina. E il nome dell’azienda (davvero insolito)? Ecco la spiegazione: “Tempa di Zoè non è solo riferito a un luogo fisico ma è soprattutto una dichiarazione di intenti. Le “tempe”, dolci colline che si rincorrono al mare, caratterizzano da nord a sud il Cilento. Zoè, è la parola greca che indica l’essenza della vita; il principio universale comune al mondo animale, vegetale e minerale”.

Rosa Come la Lingua d’Oca


Gris Blanc, Grenache (di 2 tipi), Gérard Bertrand.

Nonostante questo nome del vino, non si tratta di Pinot Blanc o di Pinot Gris. La spiegazione è semplice: stiamo parlando del vitigno Grenache (normalmente conosciuto come rosso, Garnacha in Spagna, Cannonau in Italia) nelle versioni Bianco e Grigio (laddove per Grigio si intende quella colorazione degli acini violacea, tipica anche del Gewürztraminer). Ed ecco che il grosso (in termini di volumi) produttore Bertrand con sede e vigneti nella Linguadoca, ha chiamato questo suo celebre rosé “Gris Blanc”. Un rosé che fa concorrenza a quelli più noti della Provenza e ancora più a destra (verso est) della Costa Azzurra. Qui siamo quasi verso il confine con la Spagna, con la Catalogna, per l’esattezza, in Linguadoca, curiosissimo nome di regione francese che nulla c’entra col bianco pennuto starnazzante. Linguadoca infatti deriva “…dalla lingua che vi si parlava, l'occitano o lingua d'oc, in contrapposizione al nord della Francia, detto anche terra della lingua d'oïl, laddove òc e oïl erano le rispettive forme per la parola ’sì’ (Wikipedia)”. Ma torniamo a questa etichetta, semplice, diretta: una sfera in alto (che contiene il nome del vino, cromaticamente definito in due parti) e un rettangolo in basso con una scritta che descrive il vino come un prodotto “puro e cristallino del Sud della Francia”. Il resto lo fa la bottiglia con il suo vetro trasparente e con il colore molto particolare del suo contenuto: né bianco, né rosa e nemmeno grigio (ci mancherebbe!), bensì “buccia di cipolla”, come direbbe qualcuno.

Il Filo del Discorso


Filo, Negroamaro, Cantine Menhir.

Etichetta nera, elegante, con particolari che sorprendono. Al centro labbra femminili, rosse, carnose, vibranti (anche graficamente: il profilo esterno delle labbra “riverbera” in una serie di tratti neri tracciati con inchiostro lucido). Secondo elemento attenzionale: il nome del vino, “Filo”, viene proposto con la grandezza variabile delle lettere che lo compongono. A crescere, dalla “f” iniziale alla “o” finale. Un “filotto” che nella sua scompensatezza (e anche insensatezza) certamente attira l’attenzione in quanto insolito ed originale. I contorni sono in oro, con effetto eleganza soprattutto su nero. Al centro la scritta “Riserva” che nobilita e informa. In basso una frase ad effetto, ben ideata: “…per raccontare ciò che siamo stati, ciò che siamo e ciò che continueremo ad essere”. Bene, c’è un concetto e viene portato avanti con evidenza. Il vino è da vitigno Negroamaro (siamo in Puglia, certamente, zona Salaento). Un vitigno conosciuto ai più, soprattutto in tempi recenti durante i quali questa tipologia si è diffusa (commercialmente, intendiamo) anche nel nord Italia. La Doc invece e tra le meno conosciute: “Terra d’Otranto”, dichiarando così, utilmente, l’origine delle vigne. In particolare questo produttore opera a Minervino di Lecce. I vini pugliesi si fanno largo, sul filo di gradazioni importanti, cercando di non perdere in freschezza.

Una Barbetta Tutta Naturale


Assenza, Barbetta (Barbera del Sannio), Nicola Venditti.

Il nome di questo vino è una dichiarazione di intenti. E al tempo stesso uno svolgimento del tema, con impegno e serietà: si tratta infatti dell’Assenza di solfiti e anche di lieviti selezionati (quindi si utilizzano solo lieviti autoctoni, presenti sulle bucce e nell’ambiente naturale) e di enzimi vari. Il produttore, della zona del beneventano, ha voluto così ribadire il proprio impegno sulla genuinità. Quindi non “Essenza” come molti vini si appellano (fin troppi), bensì “Assenza”, da leggersi come un primato non come negatività (certo, il rischio c’è). In basso, in questa etichetta dal carattere contemporaneo, diciamo “moderno”, e dalle forme futuriste, troviamo il nome del vitigno (nome locale), la Barbetta. Si potrebbe credere che il nome del vino possa essere questo, ma in verità è quello in alto. Al centro troviamo il nome e il logo dell’azienda, Venditti e una piccola scritta aggiuntiva: “Antica Masseria dal 1595”. Rosso Ferrari per il packaging di questo rosso, le forme stilizzate, crediamo, di una vite, sia nella texture dell’etichetta sia nel logo in piccolo. La linea comprende anche una Falanghina dei toni cromatici in arancione (sullo sfondo nella fotografia). Grafica originale, nome fattuale, vino… eccezionale (dicono gli esperti).

La Solitudine dei Nomi Importanti


I Am Not a Big Wine, Riesling e Chardonnay, Nestarec.

L’esercizio minimalista del noto produttore Milan Nestarec non convince fino in fondo. In comunicazione si potrebbe definire come “negative approach” questo nome che inneggia (con una certa arroganza grafica, poi vediamo) a una finta modestia. Questo vino bianco dalla Cechia vuole essere il simbolo di un minimalismo sano e genuino (e questo lo comprendiamo benissimo), della gioia di stare a tavola con gli amici, in semplicità, con tante cose buone sulla tavola. Ed ecco che il minimalismo si rispecchia in una etichetta molto “vuota” (ma anche pulita, certo) dove vengono enfatizzati il nome del produttore (in corsivo) e l’originale nome del vino, in neretto molto vistoso alla base del packaging. Sicuramente si tratta di una scelta grafica originale, con la funzione di farsi ben notare sullo scaffale, ad opera di una visione focalizzata su due elementi soltanto. La carta dell’etichetta è invece preziosa, rugosa, tattile, non banale. Ci sono aziende che possono permettersi questa leadership comunicativa e altre meno. Sicuramente la fama di questo ottimo produttore gli consente di divagare in modo estroso nella produzione di etichette fuori dal comune. Così come vuole essere fuori dagli schemi tutta la filosofia imprenditoriale e organizzativa. 

Una Faccia Strana Tra il Serio e il Bislacco


Bislacco, Colline Pescaresi Igt, Platinum Italia.


Davvero strano il nome di questo vino, cioè… “Bislacco”. Parola desueta che vale la pensa di sondare con l’aiuto di Treccani: “Aggettivo (forse dal dialetto veneto bislaco, soprannome che si dava ai Veneti del Friuli e agli Slavi dell’Istria, dallo sloveno bezjak ‘sciocco’). Stravagante, strambo; riferito sia alla persona sia alle sue manifestazioni”. Non un nome qualunque, quindi. La sua rarità nel parlato italiano alla fine si fa notare. E forse quella rappresentazione artistica al centro dell’etichetta conferma il concetto: un faccione tra il futurista e il contemporaneo strapassato (e strapazzato). L’azienda si esprime nei territori che comprendono le colline teramane (a Corropoli), anche con vini e vitigni di zone limitrofe, e nasce ad opera di tre amiche nel recente 2012 con 35 ettari agli attivi. Interessante la descrizione delle velleità aziendali (in fatto di comunicazione) che si può reperire in rete: “Creiamo personalmente il design per la nostra collezione di vini. In ogni etichetta è possibile riscontrare i tratti distintivi del gusto femminile, la mano e lo stile delle tre donne di Platinum e la loro passata esperienza nel settore tessile italiano. Ognuna di esse presenta grafiche, decorazioni e nobilitazioni che ricordano merletti, gioielli, tradizione storica, grazie a speciali effetti come punzonature, lamine metalliche in oro lucido, argento, effetti di contrasto lucido/opaco, fustellature che “vestono” i nostri vini con un’immagine particolarmente preziosa”. Il packaging effettivamente sa farsi notare e tanto basta.

Un Cannonau che Vuol Fare l’Americano


One Hundred, Bovale, Cantina (Gianluigi) Deaddis.

Originale, certo, questa etichetta che si presenta con un grande numero 1 in evidenza. Anzi, in grande evidenza. La ragione di questo nome, “One Hundred” o, se vogliamo, “1 Hundred” sembra essere la celebrazione di un’annata particolare, infatti nel sito del produttore leggiamo: “Un'annata speciale ha reso questo vino unico ed inimitabile, intensi profumi di macchia mediterranea esprimono in questa bottiglia straordinarie sensazioni”. Non è dato a sapersi l’annata in questione. Rimane il numero 1 in primo piano, in colore azzurro, a sancire anche una specie di primatismo. Il vitigno è di quelli assolutamente autoctoni, il Bovale, detto anche Muristellu, nell’idioma locale. Ma torniamo all’etichetta e alla sua grafica. Alla base del numero 1 troviamo il logo dell’azienda: delle iscrizioni rupestri tipiche dei nuraghi, simbolo di quella zone di Sardegna. Il fondo nero fornisce eleganza, i contorni in oro anche. Con il limite che queste cromìe potrebbero essere assimilate a un certo stile funerario. La capsula color granata sul collo della bottiglia stona un po’ e anche questo vezzo di utilizzare un nome in inglese, soprattutto in un discorso generale di territorialità, non si comprende fino in fondo. Ultima osservazione: il dominio internet e in generale le diciture di comunicazione recitano “Cantina Deaddis”, mentre sulla bottiglia, si legge “Cantina Gianluigi Deaddis”. Smagliature.

Col Tavolino tra le Colline Storiche dell’Umbria


Macinaia, Calcinaio e Rondolaio, Conti Salvatori.

Belle etichette e nomi interessanti per questa linea di vini umbri sotto l’egida della poco conosciuta Doc Colli Altotiberini. La zona è quella dei dintorni di Perugia e i vini in questione sono un mix di internazionalità e regionalità, dal sito del produttore: “Macinaia, un’unione di Chardonnay e Grechetto che si presenta al gusto molto fresco, pulito, elegante e di buon corpo; il Calcinaio, prodotto da uve Sangiovese, che generano un gusto di una freschezza meravigliosa, fragrante, suadente, con una spiccata acidità, ma di una bellissima armonia gustativa; e infine Rondolino, un Cabernet Sauvignon che fa sentire i suoi muscoli e la sua elegante complessità, mantenendo magistralmente un ottimo equilibrio ed un piacevolissimo finale lungo e persistente”. Di questi nomi solo uno è di fatto nel vocabolario (al femminile): la calcinaia infatti, secondo Treccani, è la “…vasca a pareti impermeabili nella quale si spegne la calce viva per trasformarla in grassello”, oppure anche la “…vasca dove si mettono a macerare le pelli in latte di calce per conciarle”. Gli altri due nomi di questi vini sembrerebbero frutto di assonanze neologiche: “Macinaia” (dove si macina il grano?) e Rondolaio (dove nidificano le rondini?). Eleganza a sfondo scuro, con della belle illustrazioni per queste tre etichette, che si rivelano nella parte bassa. Si ispirano alla storia dei luoghi e delle conquiste territoriali in particolare, infatti: “… i Conti Salvatori entrano in possesso della Tenuta Coltavolino nel 1695. I fratelli Orazio e Giuliano Salvatori, dopo aver combattuto al fianco dell’ Imperatore Leopoldo I d’Asburgo contro gli Ottomani, ottennero, per meriti di guerra, i territori di Coltavolino e Montacutello e il titolo di Conti del Sacro Romano Impero”. Da notare il nome della Tenuta: “Coltavolino”, che si potrebbe leggere come “colle tavolino”, ma anche, ironicamente, “col tavolino”, quasi fosse una istigazione per un pic-nic in vigna.

Nobile di Nome, Sangiovese di Fatto


Vino Nobile di Montepulciano.

Perché un vino con un nome così importante (nome di denominazione, intendiamo, cioè nome del vino in senso lato) non ha raggiunto vette di notorietà come altri in Italia (ad esempio l’Amarone, il Brunello, il Barolo che, se vogliamo, hanno nomi meno sontuosi)? La parola “nobile”, infatti, basta da sola a fornire un concetto elevato di qualità. Eppure il Vino Nobile di Montepulciano non scala ancora oggi le classifiche dei vini più rinomati. Forse per quella questione della confusione territoriale e ampelografica con il Montepulciano vero e proprio? Ricordiamo che il Vino Nobile di Montepulciano (comune toscano di produzione) è costituito al 70% dal vitigno Sangiovese (e per il resto da altri vini autorizzati in Regione), mentre il Montepulciano vero e proprio è un vitigno che si chiama così e che alberga prevalentemente in Abruzzo. Certo che la possibilità di confondere i due vini è notevole, per i non addetti ai lavori. Si tratta quindi di un caso (il Nobile) di vino che non avrebbe bisogno di un nome vero e proprio, presentando, per legge, in etichetta, il suo altisonante nome “tecnico” e fungendo questo da indiscutibile richiamo mnemonico e semantico a percezioni di notevole caratura. Diamo la colpa di questo mancato successo commerciale anche al Consorzio e al marketing che (non) è stato sviluppato? Chi lo sa? Di fatto il vino è molto buono, per quelle produzioni di aziende storiche e qualificate. E tutto sommato la tavola non è uno scaffale.

Le Calende Piemontesi al Sapor di Nebbiolo

                            

Le Calende, Nebbiolo d’Alba, Terre del Barolo.

Stilisticamente bella questa etichetta da GDO del produttore Terre del Barolo. La linea, che comprende anche altri vitigni oltre a questo Nebbiolo, si chiama “Le Calende”. Nella percezione generale le calende sono collegate a quelle greche (che di fatto sono quelle romane, da qui “calendario”). Ed esattamente, secondo Wikipedia: “ La locuzione italiana ‘alle calende greche’, derivante da quella latina kalendas graecas, ha il significato metaforico di "mai". La frase ‘ad kalendas graecas soluturos’ ("intenzionati a pagare alle calende greche") è attribuita all'Imperatore Augusto che ne avrebbe fatto uso di frequente per indicare persone che non intendevano pagare un debito. Il significato di "mai" deriva dal fatto che le calende esistevano solo nel calendario romano, nel quale corrispondevano al 1º giorno di ogni mese, e non in quello greco: protrarre un pagamento fino alle calende greche voleva dire riportarlo ad una scadenza inesistente”. Da sempre nota negli ambienti contadini è la Calenda di Maggio, cioè il primo giorno di quel mese, inteso come vero inizio della bella stagione e quindi atteso spasmodicamente. Il sospetto è che si possano chiamare così anche alcune conformazioni collinari tipiche della zona del Barolo, ma questa è tutta un’altra storia. Da notare, a livello grafico, in questa etichetta, l’appropriato uso degli inchiostri a rilievo che tracciano sia il disegno centrale sia il nome del vino in alto. Bella sintesi, ottima memorabìlia.

Il Massaro, la Massaia e la Masseria


Motula, Primitivo, Masseria Liuzzi.

Da dove può nascere il nome di questo vino? Parola strana, difficile da collocare semanticamente, e infatti deriva da una collocazione topografica, ben spiegata dal produttore stesso nel proprio sito internet: “La “Masseria Liuzzi” sita in contrada Marinara dell’agro di Mottola, nasce oltre un secolo fa come “I Casidd d Liuzzi”, ad indirizzo cerealicolo/zootecnico. Col tempo e nei vari passaggi, l’attuale “Masseria Liuzzi” ha pian piano convertito la sua vocazione agricola nella produzione viticola su circa 10 ettari di terreno, di natura mediamente argilloso/calcareo di limitato spessore, poggiante sui banchi compatti di roccia spesso affiorante in superficie, esposti a Sud ad un altitudine media s.l.m. di circa mt. 270. Nel contesto dei produttori tarantini, ben si colloca l’azienda vitivinicola “Masseria Liuzzi”, che dall’anno 2010, produce direttamente il proprio “Primitivo” I.G.T. in modo naturale rispettando la migliore tradizione contadina”. In un solo, breve, racconto abbiamo appreso le origini del nome del vino, e del nome dell’azienda, entrambi affioranti dalla storia e dalle tradizioni dei luoghi. Non ci rimane che andare a cercare l’origine della parola “Masseria” che Treccani spiega così: “Masseria (o massaria), derivato da massaio (o massaro) cioè l’azienda rurale diretta da un contadino secondo il contratto di colonia parziaria”. Forse da qui anche la parola “massaia”, cioè colei che dirige le faccende domestiche? E infine un commento alla grafica dell’etichetta: spartana, lineare, diretta, pulita, efficace. Null’altro da aggiungere.