Il Bifolco, i Buoi e le Stelle (del Garda)
La Mano di Bruno Bozzetto per il Manzoni della Bergamasca.
Manzù, Incrocio Manzoni, Cà Olta.
Questa etichetta, relativa a una piccola produzione, ha una grande paternità per quanto riguarda la grafica: l’illustre Bruno Bozzetto, disegnatore, sceneggiatore, regista di innumerevoli e divertenti fumetti. L’omino che troviamo in questo packaging, con un bicchiere in mano, ai bordi di una scoscesa collina, lo ha disegnato proprio lui. Si staglia quindi per cromatismo ma anche per originalità questa etichetta che veste un Incrocio Manzoni (vitigno) da cui il nome del vino: Manzù (siamo nella bergamasca, il dialetto è quello, sincopato, con le finali accentate). Le vigne di questo vino bianco albergano esattamente a Scanzorosciate, comune noto più che altro per il Moscato di Scanzo, la più piccola DOCG italiana, che dà luogo a un passito rosso di grande complessità aromatica. Il nome attuale del luogo, Scanzorosciate, si compone di due paesi precedentemente separati, Scanzo e Rosciate. Curiosa e peculiare l’origine di Rosciate: dal greco “ros” per grappolo e dal celtico “ate” per villaggio. Onomatopeico il nome della giovane azienda vinicola (che logicamente produce anche il prezioso Moscato di Scanzo): Cà Olta. Che in dialetto bergamasco significa “casa alta”, cioè casale posto sulla sommità della collina. Sommità che viene ben evidenziata da un colore verde brillante in questa coinvolgente etichetta (e il cerchio si chiude).
Stelle di Mare e di Monte nelle Tempe Cilentane
Rosa Come la Lingua d’Oca
Il Filo del Discorso
Filo, Negroamaro, Cantine Menhir.
Etichetta nera, elegante, con particolari che sorprendono. Al centro labbra femminili, rosse, carnose, vibranti (anche graficamente: il profilo esterno delle labbra “riverbera” in una serie di tratti neri tracciati con inchiostro lucido). Secondo elemento attenzionale: il nome del vino, “Filo”, viene proposto con la grandezza variabile delle lettere che lo compongono. A crescere, dalla “f” iniziale alla “o” finale. Un “filotto” che nella sua scompensatezza (e anche insensatezza) certamente attira l’attenzione in quanto insolito ed originale. I contorni sono in oro, con effetto eleganza soprattutto su nero. Al centro la scritta “Riserva” che nobilita e informa. In basso una frase ad effetto, ben ideata: “…per raccontare ciò che siamo stati, ciò che siamo e ciò che continueremo ad essere”. Bene, c’è un concetto e viene portato avanti con evidenza. Il vino è da vitigno Negroamaro (siamo in Puglia, certamente, zona Salaento). Un vitigno conosciuto ai più, soprattutto in tempi recenti durante i quali questa tipologia si è diffusa (commercialmente, intendiamo) anche nel nord Italia. La Doc invece e tra le meno conosciute: “Terra d’Otranto”, dichiarando così, utilmente, l’origine delle vigne. In particolare questo produttore opera a Minervino di Lecce. I vini pugliesi si fanno largo, sul filo di gradazioni importanti, cercando di non perdere in freschezza.
Una Barbetta Tutta Naturale
Assenza, Barbetta (Barbera del Sannio), Nicola Venditti.
Il nome di questo vino è una dichiarazione di intenti. E al tempo stesso uno svolgimento del tema, con impegno e serietà: si tratta infatti dell’Assenza di solfiti e anche di lieviti selezionati (quindi si utilizzano solo lieviti autoctoni, presenti sulle bucce e nell’ambiente naturale) e di enzimi vari. Il produttore, della zona del beneventano, ha voluto così ribadire il proprio impegno sulla genuinità. Quindi non “Essenza” come molti vini si appellano (fin troppi), bensì “Assenza”, da leggersi come un primato non come negatività (certo, il rischio c’è). In basso, in questa etichetta dal carattere contemporaneo, diciamo “moderno”, e dalle forme futuriste, troviamo il nome del vitigno (nome locale), la Barbetta. Si potrebbe credere che il nome del vino possa essere questo, ma in verità è quello in alto. Al centro troviamo il nome e il logo dell’azienda, Venditti e una piccola scritta aggiuntiva: “Antica Masseria dal 1595”. Rosso Ferrari per il packaging di questo rosso, le forme stilizzate, crediamo, di una vite, sia nella texture dell’etichetta sia nel logo in piccolo. La linea comprende anche una Falanghina dei toni cromatici in arancione (sullo sfondo nella fotografia). Grafica originale, nome fattuale, vino… eccezionale (dicono gli esperti).
La Solitudine dei Nomi Importanti
I Am Not a Big Wine, Riesling e Chardonnay, Nestarec.
L’esercizio minimalista del noto produttore Milan Nestarec non convince fino in fondo. In comunicazione si potrebbe definire come “negative approach” questo nome che inneggia (con una certa arroganza grafica, poi vediamo) a una finta modestia. Questo vino bianco dalla Cechia vuole essere il simbolo di un minimalismo sano e genuino (e questo lo comprendiamo benissimo), della gioia di stare a tavola con gli amici, in semplicità, con tante cose buone sulla tavola. Ed ecco che il minimalismo si rispecchia in una etichetta molto “vuota” (ma anche pulita, certo) dove vengono enfatizzati il nome del produttore (in corsivo) e l’originale nome del vino, in neretto molto vistoso alla base del packaging. Sicuramente si tratta di una scelta grafica originale, con la funzione di farsi ben notare sullo scaffale, ad opera di una visione focalizzata su due elementi soltanto. La carta dell’etichetta è invece preziosa, rugosa, tattile, non banale. Ci sono aziende che possono permettersi questa leadership comunicativa e altre meno. Sicuramente la fama di questo ottimo produttore gli consente di divagare in modo estroso nella produzione di etichette fuori dal comune. Così come vuole essere fuori dagli schemi tutta la filosofia imprenditoriale e organizzativa.
Una Faccia Strana Tra il Serio e il Bislacco
Bislacco, Colline Pescaresi Igt, Platinum Italia.
Davvero strano il nome di questo vino, cioè… “Bislacco”. Parola desueta che vale la pensa di sondare con l’aiuto di Treccani: “Aggettivo (forse dal dialetto veneto bislaco, soprannome che si dava ai Veneti del Friuli e agli Slavi dell’Istria, dallo sloveno bezjak ‘sciocco’). Stravagante, strambo; riferito sia alla persona sia alle sue manifestazioni”. Non un nome qualunque, quindi. La sua rarità nel parlato italiano alla fine si fa notare. E forse quella rappresentazione artistica al centro dell’etichetta conferma il concetto: un faccione tra il futurista e il contemporaneo strapassato (e strapazzato). L’azienda si esprime nei territori che comprendono le colline teramane (a Corropoli), anche con vini e vitigni di zone limitrofe, e nasce ad opera di tre amiche nel recente 2012 con 35 ettari agli attivi. Interessante la descrizione delle velleità aziendali (in fatto di comunicazione) che si può reperire in rete: “Creiamo personalmente il design per la nostra collezione di vini. In ogni etichetta è possibile riscontrare i tratti distintivi del gusto femminile, la mano e lo stile delle tre donne di Platinum e la loro passata esperienza nel settore tessile italiano. Ognuna di esse presenta grafiche, decorazioni e nobilitazioni che ricordano merletti, gioielli, tradizione storica, grazie a speciali effetti come punzonature, lamine metalliche in oro lucido, argento, effetti di contrasto lucido/opaco, fustellature che “vestono” i nostri vini con un’immagine particolarmente preziosa”. Il packaging effettivamente sa farsi notare e tanto basta.
Un Cannonau che Vuol Fare l’Americano
Col Tavolino tra le Colline Storiche dell’Umbria
Nobile di Nome, Sangiovese di Fatto
Vino Nobile di Montepulciano.
Perché un vino con un nome così importante (nome di denominazione, intendiamo, cioè nome del vino in senso lato) non ha raggiunto vette di notorietà come altri in Italia (ad esempio l’Amarone, il Brunello, il Barolo che, se vogliamo, hanno nomi meno sontuosi)? La parola “nobile”, infatti, basta da sola a fornire un concetto elevato di qualità. Eppure il Vino Nobile di Montepulciano non scala ancora oggi le classifiche dei vini più rinomati. Forse per quella questione della confusione territoriale e ampelografica con il Montepulciano vero e proprio? Ricordiamo che il Vino Nobile di Montepulciano (comune toscano di produzione) è costituito al 70% dal vitigno Sangiovese (e per il resto da altri vini autorizzati in Regione), mentre il Montepulciano vero e proprio è un vitigno che si chiama così e che alberga prevalentemente in Abruzzo. Certo che la possibilità di confondere i due vini è notevole, per i non addetti ai lavori. Si tratta quindi di un caso (il Nobile) di vino che non avrebbe bisogno di un nome vero e proprio, presentando, per legge, in etichetta, il suo altisonante nome “tecnico” e fungendo questo da indiscutibile richiamo mnemonico e semantico a percezioni di notevole caratura. Diamo la colpa di questo mancato successo commerciale anche al Consorzio e al marketing che (non) è stato sviluppato? Chi lo sa? Di fatto il vino è molto buono, per quelle produzioni di aziende storiche e qualificate. E tutto sommato la tavola non è uno scaffale.